Recensioni / Talvolta i saggi dei poeti superano anche le loro poesie

È una mia vecchia idea ma la ristampa di uno splendido libro di Wystan Hugh Auden Gl’irati flutti (a cura di Gilberto Sacerdoti, Quodlibet) me l'ha fatta tornare in mente con prepotenza. Si tratta in sostanza di questa: come mai, nel Novecento, alcuni fra i massimi poeti dei più diversi paesi sono stati allo stesso tempo grandi saggisti? In altri termini è possibile che un certo livello di approfondimento intellettuale sia appannaggio di chi scrive versi, piuttosto che di chi scrive prosa?
Inutile dire come questo gioco possa apparire superficiale. giustificando immediatamente riserve plausibilissime. Tuttavia vorrei provare a sviluppare questa mia impressione (non mi azzardo ipotesi). Partendo da una osservazione elementare. Mi riferisco al fatto che come risulta ovvio, la scrittura dei romanzi esige un'immersione, un investimento psichico, intellettuale, emotivo, molto magglore almeno sul piano strettamente temporale, che non la rapsodica trascrizione di poesie.
D'altronde, qualcuno ha detto che l'attività di chi scrive versi assomiglia a quella del cacciatore di frodo, del bracconiere furtivo, clandestino, attento a cogliere l'attimo giusto percolpire la preda.
Naturalmente, anche in questo caso sarebbe più che lecito sollevare tuta serie di obiezioni, a partire dal fatto che la poesia non deve obbligatoriamente essere di natura lirica. Esiste infatti una ricca tradizione anche moderna relativa all'epica.
Per fare un solo esempio; pensiamo al romanzo in versi dell'australiano Lee Murray, Freddy Nettuno, ampio poema edito da Giano in due volumi nel 2004,o a certe opere del caraibico, premio Nobel, Derek Walcott, quali Omeros, tradotto da Adelphi nel 2003: se il primo testo conta 839 pagine il secondo arriva fino a 584...
Per nondlare poi. venendo a noi il romanzo in versi di Attilio Bertolucci La camera da letto, anch'esso in due volumi, uscito da Garzanti negli anni Ottanta. Lavori di questo genere, inutile specificarlo, richiedono un impegno progettale paragonabile a quello di un romanzo in prosa. Non c'è dubbio, però, che a partire dal Novecento questi immensi cantieri poetici costituiscano piuttosto eccezioni che non la regola.
Prendiamo allora per buona l'idea iniziale del poeta cacciatore-raccoglitore rispetto al narratore agrlcoltore e iniziamo ad ad addentrarci nel pantheon dei nostri eroi immaginando che essi utilizzano la maggiore disponibilità di tempo libero per dedicarsi a studi di taglio critico.
Numi tutelati di questo breve viaggio potrebbero essere le stelle che appartenenti al firmamento poetico del secolo scorso, si rivelarono capaci appunto di brillare anche nel firmamento della saggistica francese, anglosassone e tedesca: si tratta rispettivamente di Paul valery, Thomas Stearns Eliot e Gottfried Benn.

Non solo poesie
Muovendo dal loro esempio, vorrei proporre l'opera di altri cinque poeti che ne raccolsero l'eredità, imponendosi, oltre che come lirici, anche come intellettuali nel senso più pieno del termine.
Comincerò, come accennato, da Auden, per proseguire con Octavio Paz, Ives Bonnefoy, Iosip Brodskij e Wislawa Anna Szymborska.
In altri termini un inglese trasferitorsi negli Stati Uniti e vissuto a lungo in Europa; un messicano, premio Nobel, che fu ambasciatore in India e girò mezzo mondo; un francesissimo francese, un poeta sovietico volutosi russo che fuggi a Vienna ospite proprio dì Auden per trasferirsi negli Stati Uniti, dove ricevette il premio Nobel, una scrittrice polacca, anch'essa premio Nobel, accanita sia come fumatrice sia come osservatrice del mondo. Quello che mi propongo dl fare, ripeto, è cercare di mostrare in che modo il loro lavoro poetico sia andato di pari passo con una scrittura saggistica che in alcuni casi (benché non dirò quali) ha probabilmente superato anche la stessa opera in versi.

Wystan Hugh Auden
Lo conferma brillantemente Gl'irati flutti, scritto nel 1949 con lo scopo di «comprendere la natura del romanticismo attraverso l'analisi del suo modo di trattare un unico tema, il mare". L'ampiezza degli argomenti affrontati in questa "iconografia romantica del mare" (come suona il sottotitolo) è sterminata, e non riguarda soltanto gli autori direttamente analizzati, ossia Wordsworth, Melville e Cervantes e Baudelaire. Composto subito dopo l'orrenda tempesta della Seconda guerra mondiale, Gl'irati flutti (espressione proveniente dal'Amleto shakespeariano) pullula di riferimenti letterari, filosofici, teologici, tenendo però sempre sullo sfondo il fatto che il mare costituì per gli antichi una presenza spaventosa. Non per niente, nella sua visione del nuovo cielo e della nuova terra attesi alla fine dei tempi, l'amore dell'Apocalisse garantisce che allora finalmente non vi sarà più alcun oceano.
Ciò che colpisce nel testo, lo ripeto, è soprattutto la vastità del suo orizzonte culturale. Un esempio fra tutti, quello che porta Auden sin dalle prime righe ad avanzare un'affermazione a dir poro audace. A parere del poeta tre sono i cambiamenti rivoluzionari della sensibilità a cui è andata incontro la civiltà occidentale negli ultimi duemila anni: l'invenzione dell'amor cortese, il tramonto dell'allegoria come genere letterario popolare, la nascita del romanticismo. I1 primo e l'ultimo punto risultano immediatamente comprensibili visto che nessuno può porre in dubbio l'importanza dei due movimenti sorti rispettivamente nel XII secolo e alla fine del XVIII. Cosa intende, però Auden con il secondo fenomeno menzionato, e soprattutto come può pensare di metterlo sullo stesso piano degli altri?
Parlando di tramonto dell'allegoria, lo scrittore si rifà a un insieme di avvenimenti che portarono, intorno al Seicento, a una profonda trasformazione del modo di pensare in concomitanza con il trionfo della rivoluzione scientifica, con la matematizzazione del reale e con la sconfitta delle grandi filosofie della natura, si avviò alla scomparsa una secolare forma di conoscenza, analogica e qualitativa. In un certo modo, fu come se il progressivo declino della visione alchemica e astrologica avesse fatto venir meno il paradigma stesso di un sapete basato sulla comunione degli elementi insieme ad esso. Finiva la possibilità di apprezzare, anche a livello popolare, la complicata arte dell'allegoria, fatta di continui rinvii e allusioni, scambi e passaggi interni a un universo caratterizzato da una continua circolazione di significati.
Se questo è vero, possiamo dire allora che, dopo un immenso successo, la moda degli emblemi tramontò portandosi dietro una concezione mentale e insieme artistica ormai definitivamente superata. Con la sua estinzione, cadde in disuso il gusto per la cifra, per lo stemma, vale a dire il piacere di descrivere qualcosa attraverso qualcos'altro. Quella che per tanti secoli aveva corrisposto a un'autentica visione del mondo, quella che con il Ripa o l'Aiciato era diventata una voga amatissima (insieme alla quasi contemporanea riscoperta dei geroglifci), venne inesorabilmente relegata fra le curiosità erudite. Cosi, racconta Auden, la pratica dell'allegoria si inabissò alla stregua di un'immensa Atlantide e con essa le raccolte di emblemi ormai dimenticate nel fondo delle antiche biblioteche.

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