Recensioni / La scommessa psichedelica. Dialogo con Chiara Baldini e Federico di Vita

La scommessa psichedelica, pubblicato nel novembre 2020 da Quodlibet a cura di Federico Di Vita, è un testo che raccoglie saggi di diversi autori per cercare di restituire quanto più onestamente possibile le controversie implicite nella psichedelia stessa. Abbiamo intervistato il curatore Federico di Vita, anche autore all’interno del saggio de La Sindrome di Stendhal nell’era della sua riproducibilità tecnica e Chiara Baldini, autrice di Tramonto al tempio. I festival psichedelici e gli antichi culti misterici .

Comincio col chiedere cosa è La Scommessa psichedelica e da cosa nasce il progetto di questa raccolta di saggi?
Federico di Vita: “Abbiamo scelto La scommessa psichedelica come titolo di questo libro, che pur essendo opera di diversi autori nasce da un intento e una visione unitari, per cercare di restituire quanto più onestamente possibile le controversie implicite nella psichedelia stessa. Le sostanze di cui trattiamo – e che sono al centro delle ricerche che hanno dato vita al cosiddetto Rinascimento psichedelico – sono farmaci potenti ma anche molto delicati. Se da un lato è vero che le scoperte cui assistiamo con cadenza ormai settimanale testimoniano il potenziale impiego degli psichedelici come strumenti terapeutici in grado di trattare – con efficacia che non trova paragoni se raffrontata con i farmaci attualmente in commercio – una serie di patologie che vanno dalla depressione maggiore, alla sindrome da stress post traumatico, alla paura della morte nei malati terminali, alla cura delle dipendenze, della cefalea a grappolo e via dicendo, dall’altro lato è altrettanto vero che si tratta di sostanze delicate proprio in virtù del loro potenziale, e che quindi sono in grado di slatentizzare pulsioni e rimossi profondi in soggetti che, se non opportunamente guidati, potrebbero in qualche modo soffrire di queste rivelazioni. La scommessa è dunque quella di riuscire a portare gli psichedelici alla ribalta del dibattito pubblico dopo decenni di stigma e di oscurantismo, e di riconoscergli quindi a pieno il loro potenziale, tenendo presente i rischi collaterali che possono causare, non ultimi quelli legati alle mire delle multinazionali farmaceutiche – che per cavalcare l’onda delle nuove scoperte potrebbero tentare di mettere sul mercato farmaci, realizzati magari modificando le molecole originali allo scopo di brevettarli e venderli a caro prezzo (nel nostro volume qualcosa del genere è raccontato nel saggio “L’antidepressivo di Donald Trump”, firmato da Agnese Codignola). Il progetto del libro in ogni caso è anche più ambizioso di così, il nostro comune intento è infatti quello di mostrare come la psichedelia, nel silenzio assordante della stampa mainstream, già oggi riesca a influenzare profondamente vari ambiti del nostro mondo: dall’arte, alla musica, alla letteratura, all’internet culture, alla politica e via dicendo”.

Vorrei approfondire i temi di uno dei saggi del libro, dedicato ai culti misterici. In che misura i festival psichedelici possono essere considerati una versione moderna di qualcosa di molto antico?
Chiara Baldini: “Nonostante le differenze dovute al contesto culturale e alla lontananza temporale siano chiare e profonde, nel mio saggio cerco di offrire un approccio che identifica nell’esperienza di stato alterato di coscienza collettivo un possibile e importante punto di contatto. Tale esperienza, infatti, non solo era alla base di importanti culti misterici antichi, ma si ripete adesso considerando che le attività “tipiche” di certi festival di musica elettronica sono in essenza le stesse tecniche dell’estasi praticate nei rituali. Tra queste possiamo notare, ad esempio, la danza su ritmi ripetitivi per lunghi periodi di tempo accompagnata, o no, dall’ingestione di sostanze psicotropiche, una generalizzata tendenza a un’apertura mentale e emozionale che deriva dall’essere rimosso dalla routine quotidiana, dall’essere soggetto all’influenza di aspettative, etc. Tutto ciò produce una predisposizione psico-fisica a quell’ “esperienza straordinaria” che è diversa per tutti ma che può avere un profondo effetto trasformativo sull’anima di chi vi partecipa. Quindi, pur rimanendo innumerevoli differenze, credo che questo aspetto sia spesso trascurato nel riflettere sull’esperienza di chi frequenta certi festival”.

L’etimo delle parole mistero e mito si connette a myein , radice indoeuropea che rimanda all’atto di chiudere gli occhi e la bocca, metafora probabilmente anche dell’impossibilità di esprimere a parole l’esperienza iniziatica che è intima e profonda trasformazione personale. Le iniziazioni erano esperienze che, in realtà, nella mitologia loro collegata, spesso adoperavano l’immagine della morte, seguita dalla generazione o resurrezione. Károly Kerényi parla a tale proposito con riferimento a Dioniso dell’«archetipo della vita indistruttibile» ossia il simbolo associato sia alla rinascita della natura che al fenomeno della trasformazione personale. Mi interesserebbe una tua riflessione in merito.
CB: “Il tema della morte e della rinascita era alla base dei riti iniziatici di moltissime culture indigene sparse nei vari continenti. In Europa è stato notato quanto fosse importante e familiare per le popolazioni antiche se persino la nascente religione cristiana se ne appropriò creando il mito della morte e resurrezione di Cristo, che non fa altro che prendere in senso letterale quello che fino ad allora era stata una metafora della rinascita della natura. La resurrezione viene appunto celebrata durante le festività pasquali, l’unica data nel calendario cristiano che cambia di anno in anno perché’ dipende dal giorno in cui cade la luna piena. In molti hanno fatto notare la connessione con l’antica cultura pagana che celebrava la rinascita della natura in primavera, evidenziata, tra gli altri, dal mito di Persefone che ritornava dal mondo degli inferi per due terzi dell’anno proprio come la natura rinasceva periodicamente dopo l’inverno. La comprensione profonda dell’indistruttibilità della vita, nonostante la morte “apparente” era alla base della perdita della paura della morte, che si riscontrava tra gli iniziati dei misteri di Eleusi dedicati a Demetra e Persefone. Un effetto che è attribuito anche a profonde esperienze psichedeliche e alla base delle recenti terapie a base di psilocibina (principio attivo dei funghi allucinogeni), amministrata ai malati terminali proprio con lo stesso proposito di calmare l’ansia e la paura presenti alla fine della vita”.

In questo tempo di pandemia una delle esperienze che ci viene preclusa è quella del ballare insieme, che aveva certamente un valore determinante nei riti legati a Dioniso come possibilità di comunanza e di liberazione attraverso il corpo. Mi piacerebbe una vostra riflessione in merito.
CB: “Sicuramente sono in moltissimi quelli che stanno soffrendo dall’inizio della pandemia per la mancanza di spazi dove ballare e liberarsi, dove perdersi per ritrovarsi, dove entrare in comunione con sconosciuti, in una commistione di anime e corpi che solo un buon rave può raggiungere. E visto che per molti si tratta proprio del venir meno della pratica che permette l’equilibrio mentale, le conseguenze non sono solo di ordine economico, ma anche di ordine sociale, aumentando la depressione e altre patologie psichiche”.
FdV: “Concordo con Chiara, la negata possibilità di esperienze liberatorie come quelle dei rave e dei festival di musica elettronica – esperienze che per altro avvengono all’aperto, e quindi con un coefficiente di rischio particolarmente basso, in relazione al rischio di contagio per una malattia come il Covid-19 – sono una privazione pesante per tutti coloro che conoscendo questi contesti sanno apprezzarne il potenziale profondamente catartico. Ballare per ore sotto cassa è un’esperienza liberatoria, di segno analogo a quanto accadeva a chi durante i baccanali di un paio di millenni fa andava nel bosco e danzava al ritmo continuo di un tamburo al lume di una fiaccola accesa”.

Il saggio si conclude con un appello a un abitare insieme in modo più pacifico e quindi più felice, seppure la figura di Dioniso si lega nel mito allo sparagmòs che consisteva nello smembrare, dilaniare, fare a pezzi a mani nude, di cui parla anche Euripide nelle Baccanti.
CB: “È stato a lungo dibattuto se lo sparagmos appartenesse alla dimensione mitologica o fosse una pratica reale delle baccanti nei loro rituali segreti in cima alle montagne. Infatti la segretezza che copriva i rituali, il fatto che fossero preclusi agli uomini e via dicendo, ha dato adito alla diffusione di varie leggende, sia nel mondo antico che in quello moderno. Tuttavia, nelle mie ricerche ho trovato che lo “smembramento” e conseguente consumo di un animale crudo (nel caso delle Baccanti di Perseo, re di Tebe, scambiato per un animale) può essere interpretato come metafora di vari aspetti fondamentali nella cultura dionisiaca.
In primis lo sparagmos era sinonimo dello smembramento che è richiesto all’io (in inglese ego dissolution) durante un rituale estatico per attraversare la soglia che separa la morte della vecchia identità dalla rinascita psichica, uno “scomporre e ricomporre” del puzzle interiore che è alla base nel nostro senso d’identità e della sua rigenerazione ciclica. In secondo luogo il fare a pezzi e mangiare crudo un animale selvatico cacciato con le proprie mani è stato paragonato a una specie di “eucarestia primitiva” in cui ci si cibava dell’essenza stessa di Dionisio, dio che risiede in tutto ciò che è selvaggio, in uno slancio vitalizzante che rendeva i seguaci tutt’uno col loro dio. Il mito dello smembramento si ritrova in varie altre culture antiche come in quella egiziana dove Osiride smembrato da Seth viene poi ricomposto magicamente da Iside. Inoltre non va dimenticato che nelle culture molto arcaiche, a cui Dioniso appartiene, gli opposti erano imprescindibili, e la realtà era vista, devo dire in modo decisamente realistico, come ambigua, paradossale e ambivalente. Quindi, per raggiungere una convivenza pacifica e civilizzata, era assolutamente necessario creare spazi “controllati,” come può essere un rituale, dove sfogare gli istinti animaleschi (come uccidere e mangiare un animale selvatico crudo) e sottomettersi a una serie di pratiche fisiche con lo scopo di “impazzire” per ritrovare la propria sanità mentale. Da questo punto di vista la pace non viene ottenuta attraverso la soppressione e demonizzazione degli istinti aggressivi e distruttivi, ma attraverso la loro calibrata celebrazione come pratica spirituale, derivante da una profonda comprensione della loro posizione e ruolo nel Tutto. Il fatto che questi concetti ci siano così estranei non significa, a mio parere, che ci siamo evoluti a una fase successiva, ma che, in realtà, abbiamo perso l’arte di integrare gli opposti in un tutt’uno dinamico, vitale e sacro”.

Nel saggio La Sindrome di Stendhal nell’era della sua riproducibilità tecnica viene data una lettura diversa dei festival, lì sono interpretati come Gestalt capaci di generare stati di estasi in serie – qual è il rapporto tra estetica e psichedelia e perché ne parli proprio in relazione ai festival?
FdV: “Il potenziale estetico sprigionato dall’esperienza psichedelica è sconcertante. La ricchezza di suggestioni sensoriali è senza paragoni, tutto può rivelarsi nella sua forma più pura e più alta, e apparirci quindi al pari della più raffinata opera d’arte. Perché dunque per esperirlo è in qualche misura utile recarsi a un festival di musica elettronica? Non lo è, in effetti, la particolarità dei festival però consiste nell’essere eventi studiati appositamente per essere esperiti in tale stadio alterato di coscienza, sono insomma opere d’arte che gli allestitori presuppongono che debbano essere ammirate in questo stato, e che dunque hanno sviluppato nel corso di decenni – dalle feste sulle spiagge di Goa – una serie di elementi, sia decorativi che musicali, perfetti per essere ammirati in quella condizione. La volontà degli organizzatori fa in questo caso la differenza, facendo a mio avviso dei festival di musica elettronica delle Gestalt capaci di produrre stati di estasi – e quindi Sindrome di Stendhal – in serie. La circostanza a me sembra eccezionale e credo meritasse di essere sottolineata, tu conosci altre opere d’arte che ti garantiscano di provare una quindicina di Sindromi di Stendhal in una sola notte? Io no”.

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