Recensioni / Versi per fare e disfare la tela del sé

Due raccolte di poesie mettono in scena il teatro del mondo interiore oltre le porte magiche che avviano all'età di mezzo: Chiesto ancora di Marco Papa per Empiria, e Le amorose di Luigi Trucillo per Quodlibet

Le uniche due residue maschere sociali ancora riconosciute di un poeta sembrano quelle della Stella Nascente e del Vecchio Maestro. Quanto alla poesia «di mezza età», essa non ha mai suscitato pensieri e immaginazioni particolari. La mezza età poetica sembra parlare una lingua vagamente purgatoriale; inoltre, non fornisce in generale un buon punto di osservazione della vita, come un tratto del sentiero in discesa che impedisce la vista del paesaggio, bello o brutto che sia. Ecco, forse l'aspetto psicologico più importante della mezza età è proprio una specie di continua restrizione della prospettiva e il dubbio metodico che ne consegue: una sostanziale sfiducia nella conoscenza. Ci sono spiriti che danno il meglio di sé in questa condizione, trasformandola in argomento poetico. È vero, confessano con una lieve sfumatura di ironia, ciò che fino a poco tempo fa sembrava conoscenza, si è rivelato soltanto abitudine, ripetizione. Si è dunque fuori dall'idea, supremamente consolatoria, di un percorso, di un prima o di un dopo dotati di senso. Il rintocco puntuale dell'identico, semmai, ha esaurito tutte le riserve di senso. Eppure, è ancora possibile guardare in quella direzione, esserne realmente e vitalmente ispirati, perché l'abitudine e la ripetizione sono anche delle porte magiche, consentono un modo diverso di raccontare la storia di sé, un modo radicalmente non-romanzesco, libero insomma da ogni obbligo di linearità e «storia di un'anima», finalmente.

Tutte le poesie di Marco Papa, nato a Roma nel 1955, sono un esempio straordinario di questo fare e disfare la tela del sé, come una Penelope occupata tenacemente a differire il peso del giudizio e la fine della storia. La sua terza raccolta, non meno smilza delle precedenti, si intitola Chiesto ancora (Empiria, pp.51, euro 9, 50). Papa ha trovato negli anni, scrivendo molto poco e pubblicando ancora meno, la scansione ideale dei suoi versi. Ammiratore e studioso del sommo Beckett, non ne ha ricavato, come tanti, un repertorio di temi e atteggiamenti mentali, ma una lezione molto più profonda e meno appariscente, di natura formale: l'unica via per rendere con efficacia lo spazio mentale e immaginale, che pure è uno spazio solipsistico, è quello del tenersi stretti alla grana della voce, facendo sì che ogni parola, prima ancora di cadere nel punto esatto del verso, conservi la traccia di un fiato, di una dizione reale. «Prima di scrivere dico le parole/ ad alta voce/ e viene un verso/scandito» scrive Papa in quella che si potrebbe interpretare come un'ars poetica in miniatura. La voce e il fiato comportano l'idea di un dialogo, perlomeno sondano quella possibilità. Ma in Papa non è detto che il dialogo conduca per forza all'esterno, definitivamente fuori dal perimetro dell'io, perché anche lì dentro la folla è tanta, e se il mondo è fatto di persone, la persona che articola questo discorso poetico è a sua volta suddivisa in una pluralità per niente unanime di spiritelli dialettici. Se non è il protagonista di una storia in senso classico, il soggetto del discorso è anche capace di far coincidere in sé i tempi della vita, il vecchio e il bambino di questa bellissimo epigramma filosofico: «Abbandona il bambino, dice il vecchio./ A chi lo dice, se non al bambino stesso/ che non vuole essere abbandonato,/ e proprio da lui, dal vecchio? Il bambino/ è solo più del vecchio: il vecchio/ ha la sua vecchiaia ma il bambino/ non ha più la sua infanzia». Questo bambino non poteva che far venire in mente, a un vecchio estimatore come me, lo sconcertante e indimenticabile libro d'esordio di Papa, Le birre sonnambule, uno dei pochi romanzi italiani ai quali si può rigorosamente attribuire l'aggettivo surrealista, pubblicato nell'ormai remoto 1986 dall'eroica Aelia Lelia, che aveva in catalogo, per dirne una, anche il Diario ottuso di Amelia Rosselli. Qualche anno dopo, nel 1990, Papa ha pubblicato (da Theoria) Le nozze, libro di racconti non meno estremista del primo, ma poi, nonostante tutto lasciasse desiderare ulteriori sviluppi di questo universo narrativo ironico e bizzarro, lo scrittore ha rinunciato totalmente alla prosa, per lavorare con più concentrazione ai suoi versi. Per fortuna c'è Empiria che li pubblica e per fortuna c'è anche Quodlibet da cui sono usciti i versi di Le amorose di Luigi Trucillo (postfazione di Nadia Fusini, pp.113, euro 12,00). Trucillo è nato a Napoli anche lui come Papa nel 1955 e lungo gli anni '90 ha già pubblicato altre tre raccolte di poesie.

Si sa che questi libri di poesia sono praticamente introvabili, tanto che a volte penso che se me ne inventassi qualcuno nessuno se ne accorgerebbe. Ecco allora un esempio della «conoscenza amorosa» distillata da Trucillo nei suoi abituali versi brevi: «Mentre dormi/' Domani'/ è una strana parola/ per dire che le tue cosce/covano/ le ceneri degli impulsi/ di tutti i solitari/ del mondo/ come una calda/palpebra./ O che nel folto del buio/ la falena/ non è che l'orma/di una remota luce/ accostabile». Altre volte Trucillo tenta anche forme metriche di grande tradizione, come la sestina rimata, in sintonia, da questo punto di vista, con un gusto diffuso nello sperimentalismo napoletano, Gabriele Frasca in testa. Ma è più efficace quando cerca e trova liberamente la sua musica nei versi simmetricamente disposti a centro pagina, estremo omaggio tipografico a una lunga tradizione moderna, che si presentano con la vaga forma di fiore o magari di una boccetta di profumo.

Come quella di un raffinato pagano, la poesia amorosa di Trucillo è politeistica, per non dire dongiovannistica. «I nomi femminili» - confessa il poeta - «aprono tane sottili/ in cui svernare». Ma anche in Trucillo, come in Papa, ciò che sembra un dialogo può rivelarsi una scena del teatro interiore, e viceversa. E questo amore declinato al plurale, sembra proprio indicare, anche lui, la possibilità che si apre, a ogni nuova poesia, di raccontare una storia diversa di se stessi, sempre senza capo né coda.