Che sia un maiale, un ghiro
o uno scarafaggio, il protagonista dei racconti di Alessandro Boffa si chiama sempre Viskovitz e sta sempre cercando di
sedurre Ljuba, la femmina della sua
specie. Ci riesce di rado, tutto sommato.
Quello che gli riesce bene è far ridere.
Con l'arguzia e la leggerezza di un
Achille Campanile, Sei una bestia, Viskovitz torna in libreria per Quodlibet
dopo ventitré anni. Al suo apparire, il
libro ebbe successo, tanto che fu tradotto in venti lingue. Eppure, se si cerca qualcosa del suo autore su Google
si smanetta a vuoto. Zero. L'unica cosa
che a un certo punto esce è la foto di un
tizio accovacciato a terra che cerca di
nutrire un cammello: «Lo avevo affittato nel deserto del Sinai» racconta
Boffa, romano anche se nato a Mosca,
66 anni, voce da ragazzo un po' timido:
«Volevo scrivere un reportage di viaggio, ma finii per raccontare di questo
cammello che invece di fare quello che
gli ordinavo correva dietro alle cammelle in calore.Alla fine ci ho rinunciato e mi sono messo a seguirlo io».
Quando gli faccio notare che non si
trovano notizie sul suo conto, reagisce:
«Meno male. In genere chi ha letto il
libro quando mi incontra rimane molto deluso. Si stupisce di trovarsi di
fronte un mezzo idiota, un imbranato...
Anche io quando lo rileggo mi stupisco
di averlo scritto. E stata una strana
combinazione di miracoli».
Vediamoli: biologo,figlio di Giuseppe Boffa, primo giornalista italiano a
Mosca nel dopoguerra (era corrispondente dell'«Unità») e di Iris Laura Zoffoli, staffetta partigiana. A Roma, il loro
vicino di casa era Gianni Rodari: «Mi
incoraggiava a scrivere filastrocche.A
vent'anni feci vedere un racconto a un
critico letterario amico di mio fratello,
il quale mi disse: meno male che fai
biologia perché scrivere è meglio che
lasci perdere. A trentacinque, quando
già vivevo in Asia, un amico a cui mandavo delle cartoline mi disse che erano
molto divertenti. Così ci ho provato».
In Asia, Boffa ci arriva perché, dopo
la laurea, capisce che il lavoro di biologo non fa per lui: «Diciamo che non
volevo faticare. Da bambino facevo
finta di essere zoppo per essere preso
in braccio da mia madre. Io immaginavo di diventare quel tipo di scienziato che mentre si fa la barba ha l'intuizione geniale e poi prende il Nobel e la
cosa finisce lì. Non pensavo di lavorare dodici ore al giorno in un laboratorio come poi mi è accaduto. Per questo
non è durata». Partì per la California,
poi Hong Kong, quindi Thailandia:
«Dovevo starci una settimana e sono
rimasto quindici anni. Gli asiatici sono allegri per cultura, è quasi una filosofia,poiché sono buddhisti. C'era una
trasmissione tv che mi piaceva moltissimo: le persone si lagnavano con un
monaco e gli raccontavano Ah, mi sono morti i figli, ho perso tutti i soldi,
mia moglie mí ha lasciato", e mentre
loro brontolavano il monaco rideva a
crepapelle. Lo guardavo a bocca aperta! Anche perché lui rispondeva: "E il
vostro karma, peggio per voi, così imparate ad attaccarvi alle cose!"»
Insegnamento che Boffa ha fatto
subito suo: non stava fermo un attimo.
«Anche perché a un certo punto vendevo pietre preziose che andavo a prendere al confine con la Cambogia e in
Birmania. I rubini si trovavano nei
campi minati. Per il visto dovevo uscire dal Paese, così andavo in Malesia,
Cina, Giappone. Ho girato l'India, il
Nepal, l'Indonesia, Bali, l'Australia. A
un certo punto vendevo orologi, così mi
pagavo i viaggi». Ma Viskovitz quando
nasce? «In uno dei miei ritorni in Italia,
scopro che mio fratello, giornalista,
aveva fatto leggere cinque dei miei racconti a Garzanti. L'editor Gianandrea
Piccioli venne a Roma e mi fece il contratto. Da quel momento ho fatto una
fatica bestiale a scrivere, tanto che mi
aiutavo con la meditazione buddhista».
La scelta degli animali come soggetto sembrerebbe rispolverare la
vocazione scientifica, ma il motivo è
un altro: «Volevo far qualcosa di molto diverso dame. Mettendomi nei panni di personaggi sempre diversi finisci
per stupirti. Uccidere tutta la famiglia
è normale se sei uno squalo. Bere tutto il giorno è il minimo se sei una spugna. E poi gli animali sono molto simpatici, forse perché stanno sempre
zitti. Se si mettessero anche loro a
dire, come tua suocera, "io sono fatta
così", magari sarebbero meno simpatici! È molto meglio un guaito».
In realtà, sotto il ghigno e lo sberleffo, Boffa è tutto tranne che uno sprovveduto: «Leggevo molto Tom Robbins,
Woody Allen, Kurt Vonnegut. Mi piaceva il linguaggio da duro di Raymond
Chandler, oppure Damon Runyon, l'autore di Bulli e pupe». In fondo, dietro le
rocambolesche avventure di Viskovitz
c'è sempre la ricerca dell'amore: «La
cosa drammatica è che negli animali le
femmine sono tremende, le insette poi
sono micidiali. Ci vorrebbe un movimento di emancipazione dell'insetto
maschio. Perché insomma la mantide
che ti strappa le ali e ti costringe nella polvere tutta la
vita... Per non dire
della ragna, che
mentre scopate ti si
mangia... Lei è un
amore tosto».
Ma la famiglia, in
tutto ciò, dello scienziato mancato che
diceva? «Molto male.
Ero la pecora nera, il pazzo. Ero quasi
considerato pericoloso. Finché non è
uscito il libro non se ne sono fatti una
ragione. Tutte le volte che tornavo a
Roma mio padre mi aveva trovato un
lavoro». Dopo l'uscita, nel '98, e un periodo di crisi seguito proprio alla morte del padre, i viaggi di Boffa proseguono finché una decina d'anni fa è
rientrato. Sospira: «Sono venuto a
poltrire a Roma. Ho realizzato finalmente il mio sogno da fannullone». E
scrivere? «Ho solo scribacchiato...
Adesso sto scrivendo delle favole alla
Gianni Rodari. Ultimamente sono diventato molto mistico. A volte mi chiedo: ma qual è il finale di questa storia
del fannullone? L'idea che mi piace di
più è quella dei guru indù: e cioè che a
un certo punto della vita scopri che
non sei questo miserabile di Alex Boffa ma colui che lo osserva, Dio medesimo. Loro dicono che basta stare a
occhi chiusi e concentrarsi sull'essere
e a un certo punto ruoti in un'altra
dimensione e stai nella beatitudine
eterna». In effetti, sembra meglio persino di scrivere.