Recensioni / L’albero del Kitsch

Nel 1989, a duecento anni dalla Rivoluzione francese, Bruno Bongiovanni e Luciano Guerci curavano per Einaudi un libro dal titolo L’albero della Rivoluzione. Era un’antologia, una raccolta, un florilegio talmente accurato da diventare più che un manuale o un compendio una vera e propria stanza accogliente per tutte quelle voci autorevoli che nel tempo avevano preso la parola, prima o dopo, in Francia o altrove, per dire la loro su che cosa era stata la Rivoluzione. Vittorio Alfieri, Stendhal, Filippo Buonarroti, Benedetto Croce accanto ad Hannah Arendt, Antonio Gramsci, Giacomo Leopardi, persino Cesare Lombroso, Victor Hugo tra Friedrich Hölderlin e Wilhelm von Humbolt – il “tra” in questo caso è letterale, perché l’unico criterio che ordina i pensieri sparsi è l’alfabeto: un lungo appello di giganti seduti agli stessi banchi, raccolti in un’unica classe, di grande pulizia (quella tipica einaudiana). Oggi è un libro fuori catalogo, estremamente colto, ma incandescente, dove si avverte una passione fuori dal comune per quel modo di intendere la Storia che è la testimonianza. E per testimonianza si intende la somma delle testimonianze, dei punti di vista, delle voci. Infatti, L’albero della Rivoluzione mette in pratica l’idea secondo la quale l’unico modo per rendere giustizia a un fenomeno complesso è lasciare che sia tale, trattarlo come un albero appunto, l’immagine della complessità per eccellenza, cioè una creatura vivente che cresce e muta, traendo energia e completamento da qualsiasi sguardo cada su di lei. E sono gli sguardi di altrettanti viventi che – finiti lì in cerca di qualcosa – non possono fare a meno di prendere parte all’ecosistema dell’albero, impollinare e venire impollinati. Sono oramai dentro.

È un gioco – questo dell’albero – o un metodo, che si può condurre soltanto con oggetti che vantano determinate caratteristiche, per esempio un certo quoziente di dinamismo e di irresolutezza. Per tali oggetti viventi vale l’adagio che Agostino destina al tempo e Croce all’arte: “sappiamo bene che cos’è, finché non ci chiedono di definirlo”. Adorno, invece, lo dice a suo modo del kitsch: “si verrà dunque evitando poco alla volta di parlare di Kitsch, dopo che è venuto in chiaro che cosa esso significhi”.
Gli oggetti viventi sono viventi finché sono aperti. Essi, come una corrente continua fino al punto dell’interruttore, corrono il mistero della vita e dello spirito del tempo.
E così, anche del numero 41 della rivista Riga, dal momento che esamina un oggetto vivente portando grande rispetto alla sua complessità, si può dire che è un perfetto albero del Kitsch. Più polimorfo, però, e con una maggiore tendenza al sistema: definizioni, un’antologia storica di circa trenta brani corredati da un commento d’autore, un questionario rivolto a una ventina di studiosi, una piccola mostra fotografica a tema (su commissione) e, infine, una degustazione del saggio di Jean-Yves Jouannais sui nani da giardino.

La prima differenza che salta all’occhio, però, rispetto all’albero della Rivoluzione, è che qui non c’è nessun compleanno da festeggiare. Anzi, la parte iniziale del lavoro di Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone è una collezione di voci di dizionario, una zelante ricerca all’anagrafe del kitsch, per trovare indizi sulla data di nascita del concetto dietro alla parola, sulla sua collocazione geografica, sulla sua sedimentazione. Forse viene dall’inglese sketch, oppure da “color del fango” in un dialetto tedesco, magari sta per “sgrullare via” e rimanda a una rapida consultazione, altrimenti deriva dal russo “vantarsi”, o ancora era soltanto per dire “pezzetti di legno”, e di qui “vendere al dettaglio”. In tutte queste storie risiede bellezza. E allora, come di fronte a ogni albero che si rispetti, persino quando si scava a fondo in cerca delle radici, non c’è nulla di polveroso: né nel dettaglio, né nella nervatura, e tanto meno nella foglia. È un progetto caleidoscopico come lo sono le creature, in loro non c’è noia, semplicemente perché non ci può essere noia dove scorre la vita, cioè il fatto più distante dalla noia che si possa immaginare. In quanto all’occasione per raccogliersi intorno all’albero del kitsch poi, non è un compleanno quindi, ma l’intuizione assurda eppure rabdomantica che proprio la riflessione su che cosa è kitsch ci porti a fare i conti con quello che siamo noi, adesso. È come studiare un terreno e scoprire una faglia, come mappare il cielo e notare dove si addensano i venti: qualcosa di aperto che chiama a sé e, intanto che ci ingloba, cambia rapidamente.

Se quando è iniziata la storia del kitsch, si trattava di un fenomeno minoritario e meglio perimetrato, con il tempo si può pensare che kitsch sia diventato il gusto prevalente, midcult. Allora se tutto è kitsch, niente lo è – è un’ipotesi suggestiva che torna più volte e attraversa le seicento pagine della rivista. Naturalmente quando una parola diventa vaga, cioè comincia a estendere il suo campo semantico come una rete su vari ambiti dell’esistenza o su vari prodotti di una certa cultura, allora significa che quella parola vede indebolita la sua pigmentazione originaria, oppure che il mondo intero sta cambiando colore, e ora digrada verso quella tonalità, rendendola indistinta. In entrambi i casi, è il momento di occuparsene. La famosa storiella dei pesci con cui David Foster Wallace incomincia il suo discorso Questa è l’acqua al Kenyon College è calzante: un pesce anziano incontra due pesci giovani sulla sua strada e chiede loro com’è l’acqua. Ma i due non hanno la più pallida idea di che cosa sia. Wallace chiosa dicendo che “le realtà più ovvie, onnipresenti e importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere”. Ma non è solo questo. Più in generale si tratta di fare i conti con una strategia tradizionale per conoscere il mondo che è stata compresa per la prima volta molti secoli fa nel mondo presocratico, dal genio di Eraclito: come per le figure che si imprimono sulla nostra retina, così anche per i pensieri capita che siano tanto più netti e chiari quanto più è forte il loro contrappunto. In pratica, è ormai ovvio che noi ci facciamo un’idea della realtà procedendo per analogie e differenze, dando un nome e un senso a qualsiasi cosa in rapporto al suo contrario. A volte basta una sola vocale privativa, altre è un passaggio meno scontato, ma comunque sia tradizionalmente il centro di ogni definizione è la differenza specifica, lo stacco dal fondale. Nel caso del kitsch – l’antologia storica è ordinata in senso cronologico – si ha l’impressione che, in maniera graduale, venga meno il contrasto con il fondale. Ma il fondale del kitsch è stato a lungo il sistema dell’arte.

Così, la lotta definitoria per il cattivo gusto kitsch interseca da sempre il discorso sul suo contrario, cioè sul buon gusto. E Riga raccoglie con pazienza tutti gli scontri sul ring dello ying e dello yang. Tra i più vividi e industriosi tentativi di staccare il kitsch dal fondo dell’arte ci sono quelli di Gordon F. C. Bearn, di Umberto Eco, di Leo Popper. Per il primo la differenza tra il kitsch e l’arte è una faccenda di intensità. Il kitsch è una versione più triviale e annacquata dell’arte, perciò adatta a un maggior numero di palati, a discapito di quelli più raffinati. “Un modo per immaginarsi l’intensità è pensare a un filo in tensione: se si vuole aumentare di tensione, bisognerà fare pressione sul filo in direzioni opposte”.
E, mentre la barca dell’arte autentica è tirata a prua e a poppa in direzioni opposte, la più umile barchetta del kitsch è già tanto se trova una spinta, di solito quella della dolcezza (Bearn fa l’esempio di un clown in lacrime). Per Eco, invece, il kitsch si stacca dallo sfondo dell’arte per la sua organica incapacità di “fondere la citazione nel contesto nuovo”, e finisce così per essere una collezione di pezzi piatti, di semplice funzione ornamentale. Invece, per Leo Popper, il kitsch è come una struttura nervosa, che viaggia perciò a gran velocità e di poco sotto alla superficie, mentre l’arte è anima. E il succedersi del valore accordato a queste due parti del corpo è l’esito dell’abbassamento di qualità tecnica dell’arte. Un’arte più semplice compiace un pubblico più rozzo.

Sono solo tre esempi di un repertorio ricchissimo e ben costruito. Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, i due estremi dell’arte e del kitsch non sono altrettanto riconoscibili. E, nel tempo, lo sono sempre meno. Lo scontornamento fallisce oppure resta sospeso, incompiuto tra le righe. Ma non è solo una questione legata al kitsch, è una faccenda con la quale da qualche tempo abbiamo un conto aperto noi tutti. Le nostre definizioni e le nostre certezze si sono fatte più nebulose o meno rilevanti. E così, arrampicandosi su questo albero del kitsch, di metro in metro, si ha più chiara e distinta l’impressione che il problema sollevato attraverso la categoria estetica del cattivo gusto sia un problema pratico che ha a che fare con la vita contemporanea, specialmente con quella degli studiosi.
Di più, si ha l’impressione che il kitsch sia al tempo stesso il problema e la chiave per venirne a capo. E così studiarlo è una buona idea per seguire l’esempio del barone di Münchhausen e salvarsi dal pantano tirandosi per i propri capelli.

Il mondo che abitiamo, dal momento che è sempre più dinamico e visibile, pare in buona parte essersi liberato dalle schematizzazioni del bianco e del nero: le diversità sfumano, perciò è difficile professare un’appartenenza statica a una parte o all’altra del campo, è improbabile definire e conoscere passando per le differenze specifiche. È un proliferare di ponti, di attracchi, di teletrasporti e di terre di mezzo. Non è solo un fatto di complessità e di rapidità, però, è soprattutto un fatto di sguardo: se ci figuriamo il movimento della conoscenza in forma di una coreografia, possiamo riconoscere che la discesa dall’alto verso il basso, il contrappunto, non appartiene più al nostro gusto e viene soppiantata dal balletto orizzontale, è lo schema proprio di ogni fenomeno emergente, quello dello stormo o del branco, dove la direzione è decisa da un impercettibile primo cambio di passo, e poi come fa una “così fan tutte”. Questo cambio di tecnica coreografica porta a compimento premesse ormai antiche due secoli: la responsabilità delle definizioni non è più elitaria, ma è mobile, condivisa, provvisoria – vedi Wikipedia –, e niente sta fermo. Allora, parlare del kitsch e della sua faglia attiva è un altro modo per raccontare l’avvento della strategia più diffusa per conoscere oggi, quello dell’“uomo ammobiliato” di Walter Benjamin. Qui le forme del passato non sono comprese e metabolizzate da noi in virtù del loro contrasto, ma vengono giustapposte, possedute, e infine esposte in una riserva naturale, e nervosa: posti in cui il significato e l’anima hanno un ruolo piuttosto marginale, ma se non altro si guadagna in leggerezza (lo spiega bene Milena Jesenská) e in vascolarizzazione. Non saliamo sulle spalle dei giganti, ma siamo nani e siamo ovunque, il che ci consente di osservare comunque tutto, ma nei termini di una collezione di punti di vista, senza più affidarci allo sguardo di un narratore onnisciente. Dunque, kitsch, in un certo senso, potrebbe essere diventata la nostra tattica di ultima generazione – non dialettica, ma comparativa – per figurarci il senso e le cose, per incorporazione immediata del contenuto nel contenitore. Uno stile galleria. E così il kitsch, diventato in qualche misura trascendentale, sarebbe sempre più invisibile nella sua forma a posteriori: in compenso, però, è dentro di noi.

Per questa e molte altre ragioni era assolutamente necessario parlare del kitsch come di una creatura vivente che respira e si protende finché c’è luce, modificando silenziosamente o meno il mondo che la circonda. E così è stato fatto. In un rispettoso e grande tentativo di cattura, compresa quella fotografica: nell’album su commissione figurano quadri da motel, scatole vuote, composizioni di soprammobili di cattivo gusto, vetrine in disuso e zoom di scritte al neon.

Aperto e sensibile è l’albero. Così ogni buona antologia dovrebbe fare lo sforzo di tenere vivi i suoi fiori.