In una conversazione radiofonica degli anni Settanta Carl Schmitt osservò
che la sua fama di "decisionista" era piuttosto singolare. «Il
tipo decisionista — disse — non
arriverà mai a elaborare una filosofia o teoria del decisionismo» E, riferendosi a se stesso,
confessava semmai la difficoltà
di prendere decisioni. Anche se
si trattava probabilmente di una battuta di spirito, la piena identificazione di Schmitt con il
"decisionismo" è tutt'altro che
scontata. L'incipit fulminante
della Teologia politica (1922) —
«Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione» — ha senza
dubbio consolidato l'idea che
per il giurista tedesco la decisione sia fondativa dell'ordine
politico. E sappiamo bene
quanto l'idea dello "stato di eccezione" — non di rado confuso con lo "stato di emergenza"
— continui a evocare forti suggestioni. Ma una lettura più attenta delle opere di Schmitt
suggerisce anche interpretazioni alternative. Tanto che la
stessa fama di "decisionista",
che ha circondato per un secolo il pensatore di Plettenberg, potrebbe essere quantomeno ridimensionata.
Questa tesi è sostenuta in modo convincente da Mariano
Croce e Andrea Salvatore in
L'indecisionista. Carl Schmitt
oltre l'eccezione (Quodlibet, pagine 174, euro 16), oltre che
dallo stesso Salvatore nel volumetto Carl Schmitt (Derive Approdi, pagine 88, euro 9). L'intento dei due studiosi è quello
di riaprire il "caso Schmitt"'.
Non certo tornando a ripercorrere le motivazioni che nel
1933 indussero il giurista a sostenere pubblicamente il nascente regime hitleriano (benché in precedenza avesse argomentato la necessità di porre fuori legge il partito nazionalsocialista). Ma mettendo
piuttosto in questione la lettura che riconduce i fili della riflessione schmittiana alla centralità della "decisione". Secondo Croce e Salvatore la stagione decisionista sarebbe circoscritta a un periodo molto
breve, e cioè ai primi anniVenti, perché già a partire dal 1927-28 lo sguardo di Schmitt sembra spostarsi altrove. L'individuazione del cuore della sovranità nella capacità di decidere sullo "stato di eccezione"
sarebbe così soprattutto il riflesso della polemica contro la
Costituzione di Weimar, oltre
che contro Hans Kelsen e Max
Weber, i quali — in modo molto diverso — avevano ritenuto
che la legittimità potesse risolversi nella legalità. Secondo
Schmitt l'ordinamento giuridico doveva poggiare invece su
una base "politica", che nel
1922 era ritrovata appunto nel
potere di decidere sullo "stato
di eccezione". Ben presto Schmitt si persuase però che questa soluzione non fosse sufficiente. La "decisione" rischiava cioè di rivelarsi come una
sorta di contenitore vuoto, che
poteva essere riempito di qualsiasi contenuto. In questo senso, anche la famosa definizione del "politico" rischiava di risultare tautologica. Quando riconduceva infatti il "politico"
alla distinzione tra amicus e
hostis, tra amico e "nemico
pubblico" (cioè nemico dell'intera comunità), Schmitt
sembrava presupporre l'esistenza di una comunità. Ma, al
tempo stesso, il sovrano, capace di decidere sullo "stato di eccezione", pareva diventare in
fondo il creatore della comunità politica. Il decisionismo
degli anni Venti non riusciva
cioè a spiegare, come scrive
Salvatore, «né da dove origini
il sovrano», né tantomeno
«perché alcuni individui si riconoscano come amici» e «come faccia un'unica decisione
originaria a disegnare i contorni di un ordinamento».
Consapevole del circolo vizioso in cui l'enfasi sulla decisione lo aveva condotto, Schmitt
cercò così di radicare il diritto
su basi ben più solide. Già nel
1928, nella Dottrina della Costituzione, l'ancoraggio della
decisione era proprio la costituzione. Ma la svolta si delineò
soprattutto a partire dagli anni Trenta. Confrontandosi con
studiosi come Maurice Hauriou e Santi Romano, Schmitt iniziò infatti a vedere — accanto
al normativismo di Kelsen e al
decisionismo, che aveva in precedenza condiviso — anche un
terzo tipo di pensiero giuridico: l'istituzionalismo. In generale, l'istituzionalismo ritiene
che il diritto sia non il prodotto dall'autorità, bensì la conseguenza del coordinamento
cui gli individui danno origine
nella loro spontanea interazione. In altre parole, per gli istituzionalisti la radice del diritto risiede nelle regole che la
cooperazione tra individui
spontaneamente produce. Pur
recependo questa impostazione, Schmitt ne fornì una declinazione specifica, che non rinunciava del tutto all'elemento decisionista. In questa nuova visione, il sovrano non era
comunque più il demiurgo
dell'ordine politico e giuridico, perché l'ordinamento giuridico traeva la propria linfa
vitale da un "ordinamento
concreto": un ordine articolato in un complesso di istituzioni, che regolano e coordinano le azioni dei singoli, e di
cui il sovrano è chiamato a selezionare le specifiche istituzioni da proteggere.
Lungo questo percorso, Schmitt avrebbe anche ridefinito
il ruolo dei giuristi, e di questo
mutamento teorico è testimomanza eclatante il saggio La situazione della scienza giuridica europea, ripubblicato di recente nella versione del 1950
(Quodlibet, pagine 128, euro
14). Protestando contro la
"motorizzazione del diritto",
che con la Prima guerra mondiale aveva visto moltiplicarsi i
provvedimenti legislativi, Schmitt tornava a riconoscere il ruolo cruciale, per l'esperienza
europea, del diritto romano. E
riprendendo l'appello pronunciato nel 1814 da Friedrich
Carl von Savigny, attribuiva così alla scienza giuridica la missione di «ultimo asilo della coscienza giuridica». In una simile conclusione (come d'altronde in molti degli scritti schmittiani successivi al1945) era
tutt'altro che assente un intento autoassolutorio. Ma quell'approdo, che segnava l'abbandono del decisionismo, poteva anche essere letto come
l'amaro bilancio di una stagione in cui molti cultori della
scienza giuridica — e tra questi
lo stesso Schmitt — si erano di
fatto prestati a legittimare la distruzione dello Stato di diritto.