Recensioni / Il mare romantico nella voce di Auden

Nel marzo del 1949, a poco più di quarant'anni, Wystan Hugh Auden tenne all'Università della Virginia tre conferenze sul mare nella letteratura romantica. L'anno successivo le avrebbe poi raccolte in un volume edito dalla Random House di New York. A quell'altezza era già il poeta più autorevole e riconosciuto della generazione seguita a Eliot e agli altri padri fondatori della poesia del Novecento. Proprio di Eliot, del resto, aveva percorso il cammino inverso. Da una decina d'anni era passato infatti dall'Inghilterra (dove era nato nel 1907) negli Stati Uniti, e nel 1946 aveva preso la cittadinanza americana. Chi conosca 1° settembre 1939, una delle sue poesie più celebri, ricorderà che la notizia dello scoppio della Seconda guerra mondiale gli era arrivata proprio mentre era seduto in una bettola di New York.
A più di trent'anni dalla prima edizione italiana curata e tradotta da Gilberto Sacerdoti, Gl'irati flutti o l'iconografia romantica del mare è stato riproposto dall'editore Quodibet. Auden ne riassume l'argomento in questi termini: «Un tentativo di comprendere la natura del romanticismo attraverso l'analisi del suo modo di trattare un unico tema, il mare». Ce ne sarebbe già di che far tremare le vene e i polsi, eppure, per quanto vasto e ambizioso sia il tema, queste pagine portano con sé anche altro, e in particolare l'indicazione di un rapporto dell'uomo con la vita e coi propri simili diverso dai centocinquant'anni e più di storia, certo non soltanto letteraria, che si erano appena consumati. La «ricerca delle origini di un diluvio fin troppo reale e dei suoi rapporti con l'io», come la definisce il curatore, fa insomma tutt'uno con l'idea o il miraggio di un nuovo orizzonte, di un uomo rinnovato. Basti pensare alle considerazioni sulla differenza tra le società intese come meccanismi tendenzialmente impersonali («organizzazioni di competenze in vista di una determinata funzione») e la comunità concepita invece come un «gruppo di esseri razionali associati sulla base di un amore comune».
Quello che potrebbe sembrare troppo per tutti, non lo è però per «la più grande mente del Ventesimo secolo», come l'ha definita Josif Brodskij. A conti fatti, anzi, Auden sembra aver giocato intenzionalmente sulla sproporzione tra la complessità dell'argomento e l'esiguità dei mezzi disposti per affrontarlo e venirne, almeno entro certi limiti, a capo. Intendiamoci, in un campo di questo genere rischia sempre di essere tutto oscillante, aleatorio, bisognoso d'infinite distinzioni e puntualizzazioni. Eppure nel complesso l'argomentazione, meglio ancora, la dimostrazione regge perfettamente, il che non può non lasciare sbalorditi. Auden procede infatti con estrema praticità e capacità di sintesi, offrendo di regola soltanto la conclusione del proprio ragionamento. Eppure si comprende benissimo che la sua riflessione è stata continua e profonda, e che non ha riguardato soltanto la letteratura, ma la storia, gli uomini, la vita tutta.
Del resto, gli bastano davvero pochi colpi d'archetto, ma perfettamente assestati, perché le tante poesie e pagine in prosa che costellano la sua argomentazione parlino, come suol dirsi, da sole, mettendo in luce la natura più intima dell'eroe romantico, con l'agonismo, la solitudine, la maledizione senza ritorno che lo distinguono. «Solo, solo, tutto solo / solo su un vasto, vasto mare!», coi versi di Coleridge. Sfilano così Wordsworth e gli altri romantici, e poi Baudelaire e Rimbaud, Poe e Melville, Hopkins e Blake, ma anche i classici greci e latini, l'Antico Testamento, i poemi anglosassoni, gli autori contemporanei, i filosofi (Kierkegaard primo fra tutti) e perfino le vignette dei «New Yorker». Potrebbe sembrare una mistura sovrabbondante e confusa, ma non è affatto così. La riflessione di Auden procede sempre con il timone a dritta, portandoci con una sicurezza e intelligenza che non temono paragoni proprio là dove ci voleva portare.