Recensioni / La scomodità di Louis-Ferdinand Céline

Per comodità – è bene procurarsene un po’ nell’affrontare uno scrittore ritenuto scomodo ancora a sessant’anni dalla morte – possiamo ricondurre l’opera di Céline a tre periodi, tre diverse fasi stilistiche. Quella dei primi due romanzi, l’indimenticabile Voyage au bout de la nuit (1932) e il successivo, a detta di molti persino più bello, Mort à crédit (1936): prequel, diremmo oggi, in cui Bardamu narra la sua storia di bambino e adolescente. Vi è poi una sorta d’intermezzo costituito dai famigerati pamphlet antisemiti (1937-1941) e dalle peripezie grottesche di Guignol’s band (1944), e Casse-pipe (1942, 1949), che conducono alla seconda fase: la cosiddetta scrittura recriminatoria, o in un’altra definizione, la narrativa “della sconfitta”, propria di Féerie pour une autre fois I e II (1952 e 1954: la seconda parte intitolata Normance). C’è infine il periodo dello “stile tardo”, quello in cui – riprendendo i termini del bel libro di Edward W. Said – anziché una quieta risoluzione dei conflitti, l’artista esprime un’intransigenza, e persino una “disgregazione” in rapporto all’opera precedente. Ed è naturalmente il Céline della Trilogia del Nord (D’un chateau l’autre, Nord, Rigodon, pubblicati dal 1957 al 1969), dove il tempo della scrittura talvolta si espande sulla pagina fino divorare il tempo degli eventi narrati.
Ma qual è il miglior Céline? Le opinioni dei critici e dei lettori sono discordanti. Il Voyage, afferma perentorio Pierluigi Pellini in uno studio recente, “resta senz’ombra di dubbio il suo capolavoro”. Nondimeno George Steiner, una decina di anni fa, aveva espresso un giudizio diverso: la Trilogia “svetta nella letteratura moderna”, e gli ultimi tre romanzi “eguagliano, se non superano, la forza e la maestria stilistica del Viaggio”, per via di “scene che possono esser qualificate, pesando i termini con attenzione, come ‘shakespeariane’”. In ogni caso la disputa sulla qualità letteraria delle tre fasi sembra lasciare poche possibilità proprio al secondo periodo, quello di cui vorremmo occuparci qui. La pubblicazione di Pantomima per un’altra volta e Normance, riuniti finalmente da Einaudi in un unico volume, ha riportato infatti all’attenzione del pubblico italiano proprio il Céline delirante e recriminatorio della prima metà degli anni cinquanta. Ancora Steiner in uno di suoi saggi più belli, Tolstoj o Dostoevskij (1959), ammonisce al principio: “il critico dovrebbe occuparsi di capolavori. Il suo primo compito è quello di distinguere non tra il buono e il cattivo, ma tra il buono e l’ottimo”. E dunque, ragionando in termini di giudizio estetico, che cosa manca a Pantomima per un’altra volta e Normance per reggere il confronto con gli altri romanzi? Un’ipotesi, forse insolita, riguarda l’innocenza. Pochi scrittori – sappiamo – meno innocenti di Céline. Sotto ogni punto di vista. Quanto più proclama la sua innocenza, tanto più Céline suscita in noi l’idea opposta. Maestro dell’amplificazione, dell’invettiva, del putiferio scatenato a freddo, e dunque della mistificazione: lui per primo ha spiegato infinite volte che non c’è riga della sua opera che sia spontanea. Tutto è stile, artificio. Se dunque vi è un’innocenza che trasuda dal Viaggio, come un lungo anelito rimasto inespresso perché mille volte schiacciato, non è quella dello scrittore ma dell’essere umano.
Quel giovane adulto che si getta nella vita per transitare da una disillusione all’altra, da un dolore all’altro, senza che gli sia concesso il tempo di costruire risposte che non siano, a loro volta, altrettante disfatte. Il tono fondamentale del Viaggio, come di Morte a credito, è una miscela di candore e cinismo, di fanciullezza e decrepitezza da persona invecchiata male: pochi sogni, e tutti quanto mai stupidi. Le invenzioni linguistiche, le battute di spirito, gli sfoghi e gli amari aforismi che nessun uomo di buon senso oserebbe confutare: tutto rivela quella doppia polarità. Una “doppia postulazione”, direbbe Baudelaire. Il male è ovunque. Eppure fino all’ultimo è percepito dal protagonista non come una necessità, ma come qualcosa che forse si sarebbe potuto evitare.
Tuttavia quel personaggio (Bardamu) in Pantomima per un’altra volta scompare. Al suo posto, al centro della scena, c’è lo scrittore. Perché questo è ciò che è capitato a Ferdinand, come un ulteriore accidente di cui si sente vittima: essere diventato scrittore. E per di più famoso. Una metamorfosi irreversibile, da cui si difende tenacemente continuando a fare il medico nel suo studio. Dopo il successo, poi, è stato dimenticato dal pubblico. A conferma di quanto l’innocenza sia ormai compromessa. La persecuzione – fiutata ovunque e in ogni istante – per il traditore che avrebbe venduto ai nazisti i piani degli alleati, diventa tutt’uno con la pena che giustamente spetta all’autore di genio che ha deluso i suoi lettori: “Io sono va da sé il noto venduto traditore fellone che sono per assassinare, domani… dopodomani… fra otto giorni…”. E il romanzo che sta scrivendo, quello che abbiamo precisamente tra le mani? “Guardate, per esempio, per questo libro è raro che la girino in fiasco!… disastroso!”
L’autocommiserazione letteraria, che suscita poca pietà, è l’ennesimo guaio che Céline si tira addosso. Pantomina, scritto durante la prigionia e l’esilio in Danimarca, seconda metà degli anni quaranta, è un fiasco annunciato. Anche perché ai più sfugge l’umorismo con cui Céline vivacizza e smentisce il suo piagnisteo: “Niente m’inebria come i grandi disastri, mi ubriaco facilmente delle sciagure, le ricerco no di sicuro, ma mi arrivano come certi invitati, che hanno delle specie di diritti…”. Ogni tentativo di difesa suona sterile, e lui lo sa bene. Per cui anche il compianto per i furti e gli scempi subiti nei suoi vecchi appartamenti è brontolio che trova alquanto freddo il lettore. Lo ripetiamo: l’innocenza – quella nascosta o appena percepibile nei modi di un giovanotto di periferia – quell’innocenza è perduta per sempre.
Eppure c’è qualcosa di oscuramente affascinante nel tono recriminatorio e nella paranoia di Céline. Specie quando sfociano nell’allucinazione e nel delirio. Chi vuole infatti ammazzarlo? Tutti. Sono lì che spiano, borbottano, giudicano, nascondono armi e fiutano l’odore del sangue. Non sorprende allora se la pagina si disarticola, se le immagini si accatastano caoticamente, incomprensibilmente. Ma ciò che in tanta confusione si avverte, e riscatta in gran parte il libro, è che quella paranoia è autentica. È l’affiorare sul piano verbale di qualcosa di viscerale e oscuro. La matassa dei pensieri inconfessabili, solitamente blindati nel cuore per via d’una presunta dignità o per banale pudore. Sarà anch’esso un effetto di stile, ma sulla consistenza reale di quella matassa non vi è alcun dubbio. Le fantasie persecutorie, la sensazione quasi fisica che altri stiano lì a fissarti minacciosi: è una delle più primitive, e addirittura animali forme di paura. Sentirsi in pericolo per il solo fatto di essere al mondo. Per quel poco a cui è ridotta ormai la mia vita – ci dice Céline – meriterei forse di non esistere, e magari di essere ammazzato. Diventerà un refrain dei libri a venire: se continua a scrivere romanzi è perché ha bisogno di soldi. Non per lui ma per la moglie e il gatto, e poi i cani. Le paludi della malafede sono più insidiose della fuga dai suoi persecutori. Ed è per questo che soltanto il delirio, lo straripare dell’affanno e della paura sulla pagina, riescono a riportarci nel terreno imprescindibile della verità. La realtà più cruda e violenta diviene, da fatto esterno, il formicolio incessante del pensiero. Letteralmente divorato dal rancore e da tutti quei sentimenti esecrabili come l’odio e la sete di distruzione, di cui sono capaci non solo i carnefici ma ancor più le vittime, quegli umiliati e offesi che Céline difende ma non assolve: questa nuova rappresentazione, spesso definita come espressionista, segna il passaggio definitivo dal naturalismo al lirismo. Dove il termine non ha nulla a che fare con l’esaltazione dell’io, bensì designa la meticolosa, febbricitante stenografia d’un dettato di coscienza.
Normance è la prosecuzione di tale ricerca stilistica. E l’esito risulta migliore, in quanto svolge e scompone un unico episodio: un bombardamento alleato su Parigi che letteralmente deflagra tra le pagine, in boati e colori sgargianti, dilatandosi sul piano temporale come un’epopea psichica in cui la gelosia scatena più angoscia e visioni d’un intero palazzo che sobbalza. Qui la vena comica di Céline tocca probabilmente il suo apice. Solo le pagine dei meravigliosi Colloqui con il professor Y, da poco ripubblicati da Quodlibet, possono tenere testa a cotanta sequela di scene grottesche ed esilaranti. I Colloqui, del resto, sono un libricino degli stessi anni (1955). E al di là delle celebri dichiarazioni di poetica (l’emozione del “parlato” nello scritto, i tre puntini, il bastone spezzato e immerso nell’acqua) il piacere nel leggerli oggi deriva forse anzitutto dal modo in cui Céline decostruisce ogni questione letteraria – e ogni livore personale – ribaltandoli nella clownerie narcisistica, l’insolenza che infrange ogni ordine convenzionale, e infine: una lunga, incontenibile risata.
Ancora qualcosa andrebbe aggiunto sull’annosa questione delle traduzioni, in particolare quelle storiche (ma per molti versi insoddisfacenti, già a partire dai titoli) del poeta Giuseppe Guglielmi, riproposte nel volume di Einaudi. Per ragioni di spazio dobbiamo qui rimandare alle dense e puntuali osservazioni svolte da Pierluigi Pellini nell’appendice (Fantasmagoria e traduzione) del suo La guerra al buio. Con Pellini condividiamo peraltro l’auspicio che si possa, prima o poi, leggere in italiano questi due libri con un apparato critico che ne garantisca una maggiore intelligibilità.