Essere dentro a un
tunnel ma saperne
coglierne le suggestioni, le sfide e le
potenzialità. Parliamo di gallerie scavate nella roccia, non di psicoanalisi, anche se è questione di punti
di vista. In questo caso gli occhi
sono quelli di cinque bravi fotografi e i tunnel sono immani opere
di ingegneria sotterranea: così
possono nascere memorie dal sottosuolo come le campagne fotografiche dei grandi cantieri internazionali di Ghella, azienda specializzata nel settore fin dalla metà dell'Ottocento.
La dinastia dei Ghella comincia infatti con Domenico, classe
1837, che dalle cascine milanesi si
dirige a Marsiglia - a soli 13 anni -
per lavorare come minatore; poi in
Egitto, dove si sta ultimando il Canale di Suez, e infine a Istanbul per
realizzare il Tünel di Galata. Ê il figlio Adolfo a proseguire le sue gesta, e da quel momento l'attività
dei Ghella sarà una staffetta tra azzardi tecnologici ed eventi legati
alla geopolitica mondiale. Col sogno di realizzare gallerie sempre
più ardite, Adolfo - che parla francese, cinese e russo - passa dalle
miniere d'oro australiane alle fumerie d'oppio asiatiche (lavora per
la Chemins de Fer de l'Indochine); da
Hong Kong (costruisce il tunnel di
Beacon Hill, dopo che cinque imprese prima di lui avevano fallito)
alla Russia zarista e all'Italia, dove
partecipa al traforo del Sempione
e ai delicati scavi per la metro di
Roma a fianco del Colosseo.
Si potrebbe continuare fino
alle fondamenta del World Trade
Center a New York, ma la storia
dell'azienda è limitata a uno solo
dei sei volumi editi da Quodlibet,
che si riallacciano alla tipologia
del libro fotografico aziendale
facendo tuttavia sublimare il fine
documentaristico in un progetto
più ampio. Per il curatore (Alessandro Dandini de Sylva) uno dei
riferimenti è Electricité, commissionato nel 1931 dalla compagnia
elettrica di Parigi, per cui Man
Ray interpretò la magia della luce artificiale attraverso celebri
rayografie. Gli altri cinque volumi sono assegnati ad altrettanti
interpreti che affrontano in maniera libera il non facile compito
di immortalare un vuoto. Rispetto a una parte consistente della
fotografia dell'ingegneria, che
prende come soggetto un manufatto di cui si sottolinea l'assemblaggio o la scala mastodontica
(si pensi alle sequenze della Tour
Eiffel o dei grandi ponti in costruzione), la restituzione fotografica delle voragini di Ghella
deve individuare sguardi laterali
o complementari per sopperire
alla penuria sotterranea di riferimenti, saltando dall'urbanistica
al microscopio.
Negli scatti di Alessandro
Imbriaco troviamo ad esempio i
graffi incisi sulla corazza delle talpe - bestie meccaniche alte come
un palazzo e lunghe oltre 150 metri
- che sbriciolano la roccia rossa,
quasi marziana, di Sydney. Per
scavare il tunnel di base del Brennero si usa invece un metodo old
school, ovvero l'esplosivo, raccontato dagli scatti di (nomen omen)
Andrea Botto, che da anni fa ricerca sul tema. Il suo sguardo rievoca
leggende e conoscenze ancestrali
legate ai vulcani; qui la serie fotografica diviene la cronaca di una
performance, quella del «fochino»
o brillatore di mine che allestisce
la deflagrazione. Difficile cogliere
quel momento: è necessario applicare principi di esplosivistica alla
fotografia e viceversa, oltre che
costruire un rifugio in cemento
per proteggere la camera.
Le fotografie restituiscono
anche la semiotica di queste viscere artificiali, un indecifrabile
(per noi) codice di segnali simili a
pitture rupestri, fatto di numeri,
frecce, ideogrammi che parlano
una lingua ermetica ma precisa
che permette ai suoi adepti di
orientarsi. Possiamo immaginare
il successivo e più democratico
universo di lettere e numeri che
guiderà le masse, magari bello come le grafiche di Massimo Vignelli
per la metro di New York. Ma qui
siamo ancora in una dimensione
pre-estetica, che ricorda piuttosto
le immagini della Stazione spaziale internazionale scattate da
Paolo Nespoli, in cui analogamente migliaia di razionalissimi
congegni - fili, tubi, pulsanti,
spie, luci, bulloni, colori, segnali
di pericolo - diventano disordinate decorazioni necessarie.
Gli sguardi insistono poi sul
negativo e sul contrasto: quello
tra la natura vergine (foreste di
conifere sopra al Tunnel di Oslo)
e quanto accade sottoterra, oppure tra l'impersonalità della tecnica e i primi piani degli operai. Se
per Fabio Barile l'assenza dell'uomo indaga la «temporalità diversa» del pianeta, in cui «l'essere
umano ha un ruolo marginale»,
per Francesco Neri operai e passanti sono l'unità di misura del
disordine urbano di Hanoi, con le
tracce del cantiere sovrapposte ad
alberi secolari e quotidianità. Si
svela così la dimensione del tempo promessa da tali strutture. La
geologia e l'ingegneria si trasformano in archeologia grazie ai reperti rinvenuti ad Atene nei cantieri della metro, ritratti da Marina Caneve come indizi della caducità dell'opera umana: le
infrastrutture sembrano eterne
ma - vedi le tragiche immagini
del Ponte Morandi collassato -
sono anch'esse soggette a invecchiamento e morte.
Scavare, insomma, è un'arte pericolosa ma potenzialmente feconda: non solo in senso letterale (atto di potenza originaria sul mondo, è un'operazione necessaria per piantare i semi del futuro) ma anche nel modo indicato da questi fotografi,
impegnati a scalfire l'immagine
della tecnica per decomporla in
non scontate stratigrafie estetiche e concettuali.