Recensioni / Franco Vimercati, l’infinito a minuti

Il 5 aprile 1893 a Rouen, mentre stava dipingendo l’ennesima Cattedrale, Claude Monet posò il pennello e scrisse alla moglie Alice: «Tout change, quoique pierre» («tutto cambia, perfino la pietra»). Tra gli oggetti che il fotografo milanese Franco Vimercati nel corso degli anni ha messo al centro della sua «politica dell’attenzione» (così Marco Scotini) la pietra come materiale latita – prevalgono invece la fragilità intrinseca del vetro o della ceramica, oppure l’ordinarietà dimessa e al contempo iconica di certi prodotti “metallici” del design italiano (una Bialetti, una grattugia) che, una volta eternati, tornavano a svolgere in cucina le loro funzioni usuali. Eppure contemplando gli scatti disseminati in modo tanto nonchalante quanto esatto nei tre spazi della galleria Raffaella Cortese viene da pensare che Vimercati, dalla sua casa situata qualche isolato più in là, avrebbe istintivamente sottoscritto l’affermazione del pittore impressionista. Non fosse altro in quanto autore a sua volta di un corpus di immagini situate al crocevia tra ripetizione e variazione.
«Non è Andy Warhol, tanto per capirci», così riassumeva sbrigativamente a Elio Grazioli il modus operandi seguito nella sua serie forse più emblematica, incentrata intorno a una zuppiera da lui eletta a soggetto esclusivo per una decina di anni, dal 1983 al 1992, e ritratta in un centinaio di fotografie che spesso differiscono fra loro in virtù di dettagli minimi relativi all’inquadratura, alla luce o alla messa a fuoco. Qui come altrove Vimercati sembra tendere a quella variazione quasi impercettibile che non è significativa in sé, ma piuttosto sufficiente per far capire all’osservatore che non si tratta dello stesso negativo stampato più volte.
Sondando quest’ambiguità, è come se il fotografo tematizzasse gli estremi connaturati al suo medium: da una parte, l’illimitata riproducibilità tecnica di un’immagine impressa su un supporto fotosensibile; dall’altra l’irripetibilità dell’istante catturato, poiché «tout change», come scriveva Monet, con una certa dose di frustrazione di fronte alla difficoltà oggettiva di trasferire sulla tela il «dramma atmosferico» (Jacques-Èmile Blanche) da lui percepito sulla facciata della cattedrale. E quindi, se tutto cambia, anche l’immagine della zuppiera – objet trouvé nel vero senso della parola perché dimenticata dai precedenti inquilini nell’appartamento in cui Vimercati s’era trasferito – è sempre diversa in quanto uguale, e pertanto mai assoluta, mai definitiva. Nella dedizione a bassa intensità ma tenace dimostrata dall’artista milanese nei confronti del suo soggetto nello spazio di un decennio sembra di cogliere un’eco di ciò che, un secolo prima, nel 1890, Gustave Geffroy scriveva di Monet e della sua fascinazione per la luce e per il colore: «Egli potrebbe dipingere per tutta la vita lo stesso oggetto e fornirne incessantemente immagini differenti».
Ottenere una moltiplicazione dell’immagine che non sia il risultato di una sua scontata riproduzione tecnica, bensì il frutto paradossale di una ripetizione teoricamente superflua dell’atto fotografico – così forse potremmo descrivere la strategia perseguita da Vimercati nelle sequenze realizzate verso la fine degli anni Settanta, dove la variazione minima dell’esito deriva dall’iterazione del gesto performativo: disporre l’oggetto, piazzare il cavalletto, scattare la fotografia, smontare il cavalletto, e così via, per un numero prestabilito di volte. E che in questa metaforica «cerimonia del tè» l’ultima cosa a contare sia «proprio il tè» (come confessava l’artista), lo dimostra l’impossibilità di operare una selezione tra le varie ipostasi della zuppiera, eliminando quelle che «non piacciono affatto»: «non mi piacciono ma fanno parte del lavoro […]. Non si scarta nulla, è venuto così».
Benché nella conversazione con Grazioli ammettesse di aver accarezzato l’idea, Vimercati non si spinse mai fino al paradosso logico di produrre una sequenza costituita dal medesimo negativo stampato più volte. Forse perché la sua aspirazione, come osserva Simone Menegoi, era per l’appunto quella di mostrare «il diverso nell’uguale», scovandolo perfino negli oggetti “identici” della produzione in serie, come dimostrano le trentasei bottiglie di acqua minerale del ciclo “pseudo-warholiano” datato 1975. Immortalate, come al solito, nelle loro divergenze minime – la posizione dell’etichetta, l’usura del vetro, il livello del contenuto. Un bisogno estremo di differenziare, nello spazio e nel tempo, ciò che, apparentemente, potrebbe sembrare sempre uguale a se stesso. «Su ogni pietra voi vedete la sfumatura dell’ora unita al colore dei secoli», così scriveva Proust delle Cattedrali di Monet che, con tutta probabilità, aveva visto esposte in numero di venti alla galleria Durand-Ruel nel 1895.
Altrettanto ispirata a una durata bergsoniana è l’opera di Vimercati, nella misura in cui ogni singolo scatto si rivela inscindibile da quelle varianti più o meno affini che lo accompagnano. Come nei tredici stills di Un minuto di fotografia del 1974, dove la stessa sveglia, ironicamente identificata dalla marca «Veglia», viene ritratta a intervalli di cinque secondi e riassemblata in una sequenza in cui «l’immagine del tempo del ‘tempo che segue’ non scaccia quella del ‘tempo che precede’, ma coesiste con essa» (Scotini). L’operazione tautologica circoscritta dal titolo ci traghetta qui, come constatava Luigi Ghirri, in un «tempo illimitato e dilatato», irriducibile al movimento delle lancette. Smascherando così gli orologi come gli oggetti più bugiardi del mondo, poiché il tempo si ripete sempre identico soltanto sui loro quadranti.