Recensioni / Il metodo di Remo Buti, raccontato in un’intervista “radicale”

Remo Buti, classe 1932, è architetto e designer oltre che grandissimo insegnante all’università di Firenze, dove lui stesso si laureò dopo aver frequentato i mitici corsi di Leonardo Ricci e Leonardo Savioli (di cui diventerà assistente), e proprio questo suo appassionato fervore nel darsi ai suoi studenti può considerarsi una delle sue più grandi opere – nel 1973 con gli amici radicali, è tra i fondatori della contro-scuola di design Global Tools. Ancor prima abile ceramista per passione e eredità famigliare (il nonno collaborava con la Richard Ginori di Ponti) ha avuto diverse esperienze tra cui alla “mecca” di questa arte Albissola – nel 1978, è presente alla Biennale di Venezia con la serie Piatti d'Architettura, considerata una delle sue icone.
Vari-età (Quodlibet), rappresenta il primo passo verso la scoperta di un personaggio complesso e dalle mille sfaccettature quale Buti. Ne abbiamo parlato con gli autori: Giovanni Bartolozzi, Pino Brugellis e Matteo Zambelli.

Perché questo titolo?
Il titolo ci è stato suggerito con un sorriso ghignante da Buti che ce lo ha spiegato in questo modo: il titolo suggerisce diverse interpretazioni in funzione di come viene letto. Il suo corso è stato come quei programmi televisivi di intrattenimento allegri e spensierati, pensati per fasce d’età più ampie possibili, dove si tratta un po’ di tutto con leggerezza, motti e facezie: un varietà, appunto. Ma “varietà” indica cambiamento, ricchezza, diversità, possibilità di scelta, eterogeneità, ossia quello che accadeva nel corso all’università, nel quale Remo lasciava ai propri collaboratori grande autonomia (e responsabilità), e che aveva come esito una grande diversità di risultati. Le ‘varie età’ sono anche le differenti età, intese come il succedersi delle distinte ricerche progettuali avvicendatesi durante i vent’anni di insegnamento di Buti. I lavori degli studenti ne sono testimonianza: si parte dalle contaminazioni radicals, al periodo “grigio”, dall'esplosione del colore fino alle prime sperimentazioni con il digitale degli ultimi anni del corso.

Il ruolo peculiare di Buti all’interno del movimento radicale
Anzitutto, a fronte delle numerose pubblicazioni degli ultimi anni dedicate al Movimento Radicale, Buti sostiene con forza che le sue origini vadano riscritte, e che esso nasca all'interno del corso di Visual Design di Leonardo Ricci, portatore di una ventata di freschezza grazie alle esperienze didattiche negli USA. Buti è riuscito a coniugare la cultura concettuale a quella pop senza stereotipi ideologici, con un atteggiamento che gli ha permesso di spaziare e sperimentare con grande libertà. Le sue opere gioiose, ironiche, a volte piene di sarcasmo, rappresentavano principalmente una diversa visione del mondo per poi diventare, forse senza volerlo, un’aspra critica sociale e politica a un mondo ingessato e dogmatico. Per Buti il lavoro è gioco, divertimento, e così facendo rompe le consuete, seriose regole del politicamente corretto: il divertimento diventa battaglia politica, il lavoro gioco che ripudia le fatiche e le miserie esistenziali, cercando l’uguaglianza nella diversità, l’unità nella molteplicità. Un atteggiamento del genere, sia nei confronti del lavoro che dell’insegnamento, fa di Buti uno degli esponenti più interessanti, e ancora attuali, dell’architettura radicale.

Tratto distintivo del suo approccio?
Per prima cosa Buti, insieme a Gianni Pettena, è stato l’unico solista dei radicals fiorentini, gli altri hanno tutti lavorato in gruppi con nomi collettivi; lui è stato il solo che si sia misurato con sé stesso. Di fatto è stato, ed è, un solista solitario. Poi, Buti abbandona presto la grande scala, il tema della megastruttura caro a molti dei suoi amici radicali, per dedicarsi alla sperimentazione sulla piccola scala, dal frammento urbano all’arredo per il corpo, tema di uno dei suoi corsi. Il suo tratto distintivo è la formazione da artigiano, lui sa usare le mani per fare: è molto abile come ceramista, tanto che Ettore Sottsass ricorreva a lui quando doveva cucinare delle ceramiche, è un virtuoso dell’aerografo, con cui ha realizzato numerose serie di disegni del periodo radicals – utilizzato tutt’ora con stencil autoprodotti e object trouvé (foglie, rami e altro ancora) per la realizzazione di oltre duecento tavole (70x70 cm) dedicate alla sua autobiografia di “archigiano”.

Il libro si concentra sul suo ruolo accademico. 6360 studenti hanno frequentato le sue lezioni, realizzato 4085 plastici, è stato relatore di 300 di tesi di laurea…
Il corso era quello di “Arredamento e architettura degli interni”. L’organizzazione era militaresca o da bottega artigianale, rigida, ma chiara. Agli studenti veniva offerta la possibilità di esercitarsi nell’arte del conflitto, della fuga e dell’evasione dalla realtà data e pianificata dall’alto; a loro era richiesto di trovare la nota “mossa del cavallo”, ossia lo scarto creativo che è proprio dell’artista, quello scarto che è capace di far convivere varietà ed eccesso, il luogo dove coabitano le differenze. Buti faceva poche lezioni, ma si trattava di vere e proprie performance.

In questo momento in cui non è possibile muoversi, un commento sul suo progetto dal titolo “Valigia. Arredo da trasporto”.
Per Buti la valigia rappresenta un oggetto emozionale, personale, intimo, che raccoglie le cose più significative e preziose di un’esistenza e che non puoi non portare con te in un viaggio importante. La valigia è dunque un oggetto delle meraviglie che Remo usa spesso anche nelle sue conferenze-performance come quella del 2014 dalla finestra di BASE/Progetti per l’Arte, spazio no profit a Firenze, dove da una valigia blu con gli angoli bordati di rosso, tirava fuori, come un artista di strada o un prestigiatore, meraviglie fantastiche, disegni, oggetti fuori dall’ordinario che testimoniavano frammenti di una vita unica, vissuta con allegria.