Nel quotidiano di questa crisi pandemica che sta temporaneamente cambiando le regole del nostro esistere, vale la pena di ricordare un testo di Gilles Clement, Ho costruito una casa da giardiniere, pubblicato da Quodlibet qualche anno fa. Uno di quei testi che hanno la capacità di continuare a parlare al lettore di un senso di realtà smarrito nelle cronache nostre contemporanee.
Il libro esce in Francia nel 2009, in Italia cinque anni dopo, quando Clement ha già acquistato visibilità e notorietà, ritagliandosi un posto di rilievo nel panorama di quelle che oggi definiremmo teorie del paesaggio. Ha coniato la fortunata definizione di Terzo paesaggio, ovvero l’insieme di aree un tempo modellate dall’uomo e poi tornate a una naturale biodiversità nel momento dell’abbandono. Aree che sorgono, come un vero e proprio terzo ordine paesaggistico, dopo quello naturale e quello antropizzato, all’interno di aree dismesse delle nostre città o al confine delle periferie, negli interstizi delle nostre passeggiate, sui marciapiedi, sui muri di cinta, assediati dai muschi e dall’umidità, nei prati incolti dove la sinecura della quotidianità lascia spazio alle forme di resistenza della natura attorno a noi. Sono venuti poi libri come Il Giardiniere planetario o Il giardino in movimento che sempre più hanno dato a Clement il respiro di una riflessione etica e politica sul futuro del nostro pianeta e sulla responsabilità di ognuno nella difesa di quei beni comuni che sono l’orizzonte stesso dentro il quale agire per la preservazione della biodiversità.
Ma l’esperienza da cui nasce il Clement scrittore, teorico e filosofo, sono narrate in un libro di grande intensità materica quale è Ho costruito una casa da giardiniere. Nel lontano 1976 l’autore, poco più che trentenne, lascia la casa di famiglia nella Nuova Aquitania francese, a seguito di un dissidio col padre. Ciò che ne consegue è la ricerca di un luogo dove costruire una nuova casa e parallelamente le ragioni di una nuova identità. L’abbandono della casa d’origine nella regione della Grange è l’inizio di un vagabondaggio alla ricerca del senso stesso dell’avere una casa. In questo percorso di conoscenza, il primo passo è la consapevolezza che una dimora è in primo luogo un giardino, ovvero il luogo nel quale adattare la propria umana esigenza di protezione alla simbiosi con le specie naturali e animali che in quello stesso territorio vivono e prosperano. In secondo luogo, aggiunge Clement una casa è un orto, uno spazio anche dedicato alla coltivazione, come ben sanno tutti i discendenti dalle culture contadine antiche e recenti. Sullo sfondo appare una campagna francese che agli inizi degli anni ’70 vive in misura largamente inconsapevole l’addio alla civiltà contadina, mentre il ricordo delle esplorazioni dell’infanzia dà al protagonista la forza di pensare a un nuovo inizio. Quando molti abbandonano le vecchie cascine per abitare informi cubi in cemento, l’autore inanella una serie di domande essenziali.
Come ci si immagina una casa?
Da cosa si comincia?
Esiste una stanza più importante delle altre?
Di che dimensioni farle, perché siano comode senza essere costrittive?
Una serie di domande, che sono in sé la chiave per entrare nel tessuto costitutivo del libro e parallelamente per entrare nel denso scenario della costruzione del luogo dove si sceglie di vivere. Un luogo che non viene abitato come risultato di una mediazione immobiliare ma che al contrario previene qualsiasi mediazione e interroga le radici profonde del senso dell’abitare. Clement costruisce la propria casa, come un tempo avveniva grazie al lavoro comune del singolo e della comunità di appartenenza, che caparbiamente prendeva parte allo sforzo. Cosa che oggi semplicemente non avviene più, appaltato alla catena dell’industria delle costruzioni, sempre più rapida, sempre più distante nelle sue esclusive logiche di mercato, e si può forse ancora incontrare in alcune realtà latino-americane, pur piagate dalla miseria e dalla penuria materiale. Ma i problemi rimangono, dall’allacciamento delle utenze, alla costruzione dei muri perimetrali, alla densità della luce, al controllo dell’umidità, alla geomantica degli spazi, al rapporto spazio interno-esterno, al riciclo degli oggetti dismessi e alla loro rifunzionalizzazione. E diventano stimoli fondamentali
Il resto del libro è la narrazione di come la casa sia nata, passo a passo, per essere infine inaugurata quattro anni dopo l’inizio dello sforzo. La pagina conclusiva riporta scrupolosamente i nomi di tutti coloro che hanno collaborato alla costruzione, a modo di inventario comunitario dell’impresa. Nel mezzo un mare di energia vitale, come necessariamente deve essere per affrontare un’impresa del genere.
Un libro di domande dunque, ma anche un libro di risposte improntate alla vitalità dell’esperienza. “Chi non ha mai praticato questo esercizio non sa come tali domande – esempi di trivialità – raggiungano il fondo della coscienza demolendo le nostre abitudini, poiché d’improvviso interrogano la loro fondatezza”.
Se poi ci sono corrispondenze fra i testi letterari, e queste corrispondenze sono per certo di tipo storico-contestuale e di successiva germinazione culturale, si veda un film uscito lo stesso anno del libro di Clement, Jonas che avrà vent’anni nel 2000 con regia di Alain Tanner e sceneggiatura del grande John Berger e si legga un libro, L’invenzione del quotidiano di Michel de Certau, uscito proprio nel 1976, sulle tattiche di resistenza delle classi subalterne alle strategie manipolatorie delle classi dominanti. Si avrà un quadro ricco del giardino nel quale fiorivano idee straordinarie. Da recuperare.