Gianni Celati è uno dei personaggi più singolari e appartati della nostra letteratura, capace negli anni '70, in uno scritto per "Il Caffè", di sdoganare uno scrittore maledetto come Céline, che per le sue posizioni antisemite spaventava «gli esperti editoriali» e gli intellettuali «benpensanti», scandalizzando «la buona coscienza dell'europeo civilizzato illuminista», ma anche «la cattiva coscienza del nazista bianco». Così l'autore del Viaggio al termine della notte e di Morte a credito (per cui Celati scrisse una prefazione) era costretto a «vivere nel sottosuolo». In realtà per Celati non si poteva - e non si può, viene da aggiungere - ignorare la scrittura di Céline, il suo corpo a corpo col male e col dolore. Definito da Goffredo Fofi «il più probo e generoso degli scrittori italiani di oggi, come narratore e come critico», nella raccolta I costumi degli italiani appena edita da Quodlibet (pagine 256, euro 16,00) egli descrive, in una serie di racconti finalmente riuniti, la vita di provincia attraverso gli occhi di un giovane nel bel mezzo del boom economico degli anni '60. Una testimonianza in cui si manifesta lo sguardo dello stesso autore, oggi senza dubbio più amaro e disincantato. Lo si capisce leggendo un volume che lo riguarda anch'esso da poco in libreria, Gianni Celati e i classici italiani (FrancoAngeli, pagine 150, euro 18,00), di cui è autrice Elisabetta Menetti, docente di Letteratura italiana all'Università di Modena e Reggio Emilia. Che Celati sia un protagonista sui generis del mondo letterario italiano lo rivelano la sua biografia - ha insegnato al Dams di Bologna dal 1973 all'84 per poi dimettersi perché non si riconosceva nella casta dei professori e da anni si è ritirato a Brighton, in Inghilterra - sia la sua linea culturale che, all'interno della storia della letteratura del nostro Paese, si riconosce essenzialmente in due categorie, il cavalleresco e la novella. Negli anni della contestazione all'ateneo felsineo Celati, esattamente nel 1977, tenne una lettura collettiva di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll nonché dei due saggi sul riso di Bergson e Pirandello, e l'anno precedente mise in scena uno spettacolo di strada in cui, travestito da cappellaio matto, sbertucciava la categoria dei docenti suoi colleghi. Già allora si potevano comprendere le sue preferenze, che il volume di Menetti contribuisce a mettere a fuoco. Chi sono i classici per Gianni Celati? Certamente Dante e Boccaccio, Ariosto e Leopardi, ma poi tanti cosiddetti minori, da Folengo a Boiardo, da Bandello a Garzoni sino ai più recenti Tozzi e Delfini. Tutti amati perché capaci di fornirci «visioni e non informazioni». Di qui la sua lettura critica verso l'era di Internet, quello che lui chiama «il paradosso della fotocopia», l'eccesso di informazioni che abbiamo a disposizione che finisce per incrinare la nostra capacità creativa. L'ha ribadito lui stesso in un'intervista a "L'inchiesta letteraria" del 1995: «Se leggo Boccaccio, se lo leggo di gusto e me lo porto a mente, non ne ricavo precisamente delle informazioni, ne ricavo delle visioni. E le visioni non si possono riciclare perché non sono dei dati di fatto. In questo senso un libro classico riguarda la mia vita pratica, perché avere delle visioni è una questione pratica, che ci orienta nei fatti dell'esperienza. E tutta la letteratura classica, direi, fino a un certo punto, cioè fino a Leopardi, riguarda essenzialmente la possibilità di avere delle visioni». Emergono la lontananza di Celati dalle avanguardie e dallo strutturalismo, la riscoperta della letteratura comico-carnevalesca, la diffidenza verso gli autori che vogliono raccontare la realtà come se quest'ultima non avesse a che fare col fantastico, e la sua concezione della scrittura come lavoro non solipstico ma comunitario, ove protagonisti sono i vagabondi, gli sbandati e i sognatori come Don Chisciotte. L'autore di gran lunga più amato è allora Matteo Maria Boiardo, di cui ha provato a riscrivere l'Orlando innamorato, «un mondo di meraviglie senza fine». Un mondo al cui centro è la fabulazione e che permette a Celati di dare vita a una sorta di contro-canone letterario, in cui non c'è spazio per le teorie erudite dei professori che tutto vogliono spiegare, un mondo in cui è importante perdersi. Ma anche un mondo sempre più ignorato, a partire dagli anni '80, da un'editoria italiana sempre più mercificata, con autori feticcio che diventano star e la narrativa ridotta a consumo. In questa operazione di rovesciamento, Celati come detto privilegia la novella, quella che nel mondo medievale e rinascimentale ha per protagonisti i folli e gli stolti, gli stralunati e i diseredati. O, per dirla con le sue parole, «il semplice, che deriva dalla figura evangelica dei poveri di spirito, destinati al regno dei cieli».