Recensioni / Giancarlo Gaeta: il tempo della fine, o la radicalità di Gesù

In questo periodo di sospensione e di clausura i libri che ritemprano l’anima e infondono serenità sono un sicuro balsamo all’affanno e alla mestizia; esemplare in tal senso è l’opera di Giancarlo Gaeta, Il tempo della fine. Prossimità e distanza della figura di Gesù (Quodlibet, 2020), nella quale si rimette in primo piano il folgorante dramma suscitato dalla presenza di Gesù tra i suoi contemporanei attraverso le prime letturesentimento dell’esistenza che ne ha determinato la stesura, i Vangeli canonici hanno il pregio di porgere la narrazione di una stessa vita in una forma che rispecchia la singolarità di ciascun autore nel vivere la propria fede e secondo una pluralità di punti di vista che sono esterni e interni alla medesima materia narrata e che mantengono intatta non solo la radicalità della figura di Gesù ma anche la dirompenza della feconda vitalità degli inizi..
Il libro di Gaeta si presenta come una raccolta di otto saggi che coprono l’arco di un ventennio (1998-2018) e la cui ispirazione risale al commento di un versetto evangelico proposto da padre Nino Fasullo nell’ambito delle Settimane Alfonsiane; non si tratta tuttavia di un semplice assemblaggio ma di una vera e propria composizione, in cui confluiscono i singoli saggi sganciati dalla mera successione temporale e ordinati secondo un criterio consonante non solo con l’approccio dello studioso e storico del cristianesimo ma anche con il vissuto di un autore-soggetto permeato di religiosità radicale. Un criterio nel quale si riverbera il compito prioritario assegnato da Gaeta allo storico, vale a dire saper “cogliere il significato dell’esperienza di Gesù” attraverso l’interrogazione delle fonti, senza forzarle nell’intento di ricostruirne “artificialmente” la figura, e attraverso una lettura condotta con il massimo e scrupoloso rispetto nei confronti di “ciò che della storia di Gesù ciascun evangelista ha colto come essenziale al suo scopo, che era di suscitare nel lettore la contemplazione del mistero, piuttosto che il suo piacere estetico o il suo interesse storico” (Giancarlo Gaeta, Il Gesù moderno, Einaudi, 2009, p. 130 sg.).
Nel saggio che apre il volume Gaeta commenta i versetti di Marco intorno alla messa in dubbio della “normalità dello stato psichico [di Gesù] a causa di ciò che fa, al di là di ciò che predica” (3, 21 sgg.): assistiamo così al dipanamento dell’intreccio aggrovigliato tra esperienza estatica e lotta contro Satana e demoni da parte di Gesù, esperienza di stupefazione delle moltitudini dinanzi alle guarigioni, rifiuto dei familiari che lo accusano di pazzia e critica dei farisei che gli imputano la possessione demoniaca. Nella pericope marciana, scrive Gaeta, “la preoccupazione tutta sociale dei familiari di Gesù si somma con quella essenzialmente religiosa dei farisei, indisponibili a misurarsi con un radicalismo che ritenevano incompatibile con una concezione edificata sulla sottomissione ragionevole al dettato scritturistico. Preoccupazione destinata a intricarsi in un nodo politico che potrà essere sciolto soltanto con l’uccisione di un soggetto percepito dai detentori del potere come un pericoloso corpo estraneo” (p. 25).
Del resto, neppure i discepoli furono in grado di cogliere il senso reale della vocazione e della predicazione del loro Maestro; per riuscire a discernerlo, sottolinea Gaeta, dovettero affrontare e superare la crisi determinata dalla sua tragica fine. E a proposito del rapporto del Maestro con i suoi seguaci è illuminante il modo graduale dell’autore di accompagnare alle diverse spiegazioni del secco ordine dato da Gesù (“Seguimi! E lascia i morti seppellire i loro morti”, Matteo, 8,22; Luca, 9, 60) senza rigettarle del tutto e giungendo infine a una lettura che restituisce pienamente la radicalità antimondana del messaggio tramandato: “qui l’accento non cade sull’incombenza di seppellire il proprio padre posta in concorrenza con la sequela di Gesù, bensì sul dichiarare ‘morti’ quanti restavano estranei alla sua predicazione perché ancora soggetti a un ordine di cose impediente (…): l’invito pressante è ad abbandonare un mondo di morti, vale a dire una condizione di morte che è innanzitutto sociale (…) in definitiva una decisione per la vita, e contro la morte” (pp. 33 gg.), ovvero un atto di rottura destabilizzante che non è tuttavia disancorato dalla compassione, come svelato dagli altri passi evangelici via via citati.

La lettura critica dei testi evangelici da parte di Gaeta mette, nel caso di Marco Una domanda che nel Vangelo di Giovanni si pone invece “in termini di scelta fondata su una comprensione di chi sia Gesù a prescindere dalle denominazioni correnti nella cristologia della tradizione apostolica attestata dagli altri evangelisti che in lui riconosceva innanzitutto il Messia” (p. 49) e che impone a Gaeta di accentuare la pluralità del primo cristianesimo e nello stesso tempo di far emergere “l’esigenza di dare significato pieno all’evangelo nella misura in cui è mantenuta ferma la continuità tra Gesù e i discepoli nella concretezza degli atti” (p. 57; si veda anche G. Gaeta, L’evangelo di Gesù, il Messia, in I Vangeli, cit., pp. VII- XXII.). Nondimeno, come evitare il “pericolo della mondanizzazione”, la “scissione tra il dentro e il fuori”, la distanza tra forma mistica della fede cristiana e forma istituzionalizzata? La risposta consiste nel non vedere le due forme come contrapposte l’una all’altra, al fine di non perdere la verità dell’evangelo, anche se a distanza di secoli non si può disconoscere la piena validità dell’ammonimento di Simone Weil che Gaeta cita: “… è ‘come se con il tempo si fosse finito col considerare non più Gesù, ma la Chiesa come Dio incarnato quaggiù’; una situazione soffocante a cui soltanto i mistici si sottrarrebbero nella misura in cui ‘accettano l’insegnamento della Chiesa non come se fosse la verità, ma qualcosa dietro la quale si trova la verità’” (p. 57; Simone Weil, Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, Adelphi, pp. 41 sg.) Oggi purtroppo, viene sottolineato con amarezza, prevale nella Chiesa la logica istituzionale “fino a rendere secondario il riferimento stesso all’evangelo” (p. 58). Si può dunque sormontare l’apparente frattura tra il mondo e Dio? Si può disinnescare l’illusione che tutto, proprio tutto quanto capita nel mondo, abbia un senso e che vi possa aver luogo quell’autorealizzazione determinata dalla volontà di esserci e dalla volontà di potenza?
“La fede evangelica nel Regno di Dio che irrompe nel mondo nell’ora presente ha precisamente l’effetto di dissolvere questa potente illusione” – osserva Gaeta; “cosicché esso appare precisamente quale esso è, in balia dell’insensatezza su cui la morte pone il sigillo, non solo alla fine ma minuto per minuto. Ed è a questo mondo visto reale che Gesù si rivolge predicando il Regno ma anche sanando, perché il sanare è il segno che il Regno si oppone al potere della morte” (p. 94 sg., corsivo mio).
E mi pare che dalla passione per il presente affiori la voce più intima di Giancarlo Gaeta nel dar conto della pratica di resistenza dell’essere cristiano qui e ora, nel restituirne l’autentica esperienza radicale, quella che connette l’aspirazione alla felicità nell’ordine del profano al sentimento del patire e compatire nell’ordine del messianico: “Non si tratta di salvare il mondo infilandolo nella camicia dello spirito, bensì di vederlo così come esso è, nel suo trapassare insensato ma altresì nella sua autonomia. Non si tratta di elevarsi al cielo o di affondare nell’interiorità, ma di sfamare gli affamati; e allora il Regno è presente, come un di più che è tutto. È infatti questa l’azione grazie alla quale, come è continuamente mostrato nei Vangeli, s’infrange la compattezza opaca del mondo, il suo cieco voler essere; e appare, spezzati i vincoli sociali, l’essenziale solitudine di ciascuno, il grido di bene e lo stupore per il dono inaspettato” (p. 96).
Questo bel libro mostra un persistere dell’esperienza religiosa nonostante il venir meno del linguaggio spirituale e concorre a disvelare il senso autentico dell’evangelo, “racconto molteplice di una credenza segnata dall’eccesso degli atti, dalla parola che stupisce, dalle conflittualità insuperabili, dalla violenza della separazione, dallo sconvolgimento della risurrezione”, racconto che apre a “un fare impossibile a dirsi nel testo e che sarà una pratica di questo testo stesso” (p. 119; Michel de Certeau, La frattura instauratrice, in La debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo (1987), a cura di Luce Giard, Città aperta, 2006, p. 203.) una pratica che contribuisce al mutamento radicale del mondo nel segno della giustizia.

Recensioni correlate