Per certi versi il Kitsch somiglia a quei
vasti e strani domini
di cui tanti scrittori
e naviganti hanno
lungamente favoleggiato senza per questo riuscire a tracciarne con esattezza i contorni. Come delle Isole Fortunate
o d'altri remoti paradisi, quali
l'Eden o l'Eldorado, di cui si conoscevano i caratteri di florida opulenza ma non l'estensione né si sapeva in qual punto
la feracità della loro terra cedesse a quella comune in cui il
frutto s'estrae a fatica con violenza d'aratro, così, pur essendosi molto ragionato sui caratteri del Kitsch, resta difficile
stabilire quali artisti ne siano
stati del tutto immuni.
Il Kitsch è un grado d'opacità dell'arte, che può ritrovarsi
anche nelle opere più luminose. Ne è riprova la varietà d'esempi menzionati in questa ricchissima antologia di contributi sul tema: Kitsch, a cura di
Marco Belpoliti e Gianfranco
Marrone, Riga 41 (Quodlibet,
pp. 604, € 28,00). II Kitsch—quasi tutti ne convengono — è una
forma di impertinenza. Esso
non coincide col cattivo gusto,
ma ne costituisce una variante
particolare. Ogniqualvolta
un'idea, un'immagine, o uno
stilema, svuotati del loro originale significato e strappati alla
loro primitiva unità di rapporti, sono reimpiegati in un altro
contesto al fine di destare un facile stupore, possiamo dire di
trovarci in presenza di Kitsch.
Nel Kitsch ciò che era arte s'è
fatto pseudo-arte, patina, impiallacciatura d'artisticità. Per
questo le réclame, in cui una melodia di Bellini o una statua di
Michelangelo può essere chiamata a sponsorizzare un prodotto cosmetico o un capo intimo maschile, ne sono spesso
delle eccellenti fonti.
Per Dorfles, tuttavia, la categoria del Kitsch può essere estesa senza difficoltà a «colonne
in finto marmo, trascrizioni
musicali, riduzioni di romanzi
e poemi a condensati: Bibbia in
fumetti, i famigerati digest americani dove sono resi soltanto
gli aspetti più triviali, lacrimosi, zuccherosi, dell'intreccio attraverso l'amputazione di interi brani del testo originale; e ancora, la riproduzione meccanica di capolavori mediante tavole colorate dove ogni fedeltà
nei rapporti cromatici scalari è
sovvertita». Eco cita l'esempio
di Boldini e delle sue sirene stigmatiche: «Se si osservano le sue
tele, in particolare i ritratti muliebri, si nota come il viso e le
spalle obbediscano a tutti i canoni di un raffinato naturalismo (...) Non appena però passa a dipingere la veste, quando
dal corsetto scende alle falde
della gonna, e dalla veste trapassa allo sfondo, ecco che Boldini abbandona la tecnica gastronomica (...) La parte inferiore dei quadri di Boldini evoca ormai una cultura impressionistica (...) AI piano superiore aveva fatto della gastronomia, ora fa dell'arte». Se, come
sosteneva Ippocrate, il veleno
sta nella dose, il Kitsch offre le
innovazioni formali delle più
progredite tendenze artistiche
in una percentuale tanto diluita da rendere la loro trasgressione del tutto innocua. Ciò
non vuol dire che sia arte tecnicamente dozzinale. Kitsch è Dalí con l'iperrealismo flaccido
dei suoi orologi molli, facilmente riproducibili e ben presto degenerati in maniera, del
quale, tuttavia, nessuno metterebbe in discussione l'eccellente perizia artigianale. Come
nessuno potrebbe negarla alle
figure di Bouguereau, astratte
anime platoniche inguainate
in zuccherosi corpi rosa pesca,
o alle tele di Hans Makart.
Al pari di Eco, anche Greenberg e Macdonald credettero
che questa particolare categoria di prodotti estetici nascesse
dalla dialettica fra avanguardia e cultura di massa e che fosse perciò impensabile ricercarne l'equivalente in epoche precedenti ai grandi processi di industrializzazione. Di diverso
parere fu Mario Praz che, in
uno dei saggi confluiti nel Patto
col serpente (stranamente non
presente nell'antologia), trovava «questa ingegnosa spiegazione» appartenere «al genere di
tante brillanti trovate di Benjamin, di Adorno e altri pensatori per spiegare fenomeni sociali» e che, viceversa, «la macchina pubblicitaria moderna
sfrutta l'innata tendenza degli
uomini a concezioni grossolane dell'arte e del bello dovute
(...) ad una componente morale di falsificazione e surrogazione di sentimenti reali con sentimenti spuri» (come negare la
qualifica di Kitsch al banchetto
di Trimalcione o alle deliranti
creazioni di Villa Palagonia,
che Goethe onorò del titolo di
«villa farnetica»?).
Anche Broch, d'altra parte,
come nota Mecacci nel commento al testo, sembra ammettere l'esistenza di «un Kitsch
moderno come di un Kitsch antico». Il Kitsch avrebbe cominciato a imporsi, sostiene Broch, col Romanticismo, quando
una classe sociale in ascesa, la
borghesia, volle esperire l'esaltazione passionale, senza venir meno allo spirito di contrita mortificazione dei sensi
ch'era nella sua tradizione puritana. Ne sarebbe nata quella
pretesa d'assolutizzare la sfera
mondana coll'impastarla di valori spirituali ch'è fonte inesauribile di Kitsch. Il Kitsch-Mensch
non aspirerebbe dunque a godere d'una opera bella ma della Bellezza, quale la figuravano
i platonici, cioè d'una idea, la
quale, ormai ricercata come fine in sé, verrebbe così mutata
in feticcio. D'una simile feticizzazione della bellezza, indifferente ai valori etici, avrebbe,
tuttavia, dato prova — sempre
secondo Broch — assai prima
dell'epoca di Eichendorff e di
Byron, Nerone, se, come vuole
la leggenda, avesse profittato
dell'incendio di Roma per cantare dall'alto della torre di Mecenate la distruzione di Troia.
Che si voglia o meno condividere la definizione di Broch, si
deve però convenire con molti
degli autori antologizzati nel libro che il Kitsch non è soltanto
nell'oggetto ma anche nello
sguardo di chi osserva; sicché
in luogo di condannarlo si può
redimerlo e gustarne i clichés
per l'alto livello di stilizzazione ch'essi comportano. In questi casi si avrà il Camp che Arbasino distinse in maniera assai
spiritosa: «si può sempre definire Kitsch una produzione di
manufatti di cattivissimo gusto però d'ingombrante pretenziosità "artistica"; mentre
si scivola presto nel Camp
quando si trovano "diviniii"».
Simile sorta di snobistico diletto, ben diverso dall'accondiscendenza sentimentale per le
«buone cose di pessimo gusto»,
è assimilato dalla Sontag al dandismo, del quale costituirebbe
una versione adeguata alla società di massa: «il connoisseur
Camp ha scoperto piaceri più
astuti. Non più poesia latina, vini pregiati o giacche di velluto,
ma i piaceri più rozzi e comuni, le arte di massa. L'uso non è sufficiente a sconsacrare gli oggetti del suo piacere, perché
egli impara a possederli in modo insolito», ch'è poi la forma
d'elitarismo più naturale in
un'epoca in cui la discussione
teorica ha una parte sempre
maggiore nel godimento dell'opera d'arte.
Non può perciò sorprendere
che uno dei più sofisticati editori e saggisti francesi di oggi, Patrick Mauriès, allievo di Roland Barthes, abbia recentemente ripubblicato per l'éditeur singulier un suo scritto del
1979, Second Manifeste Camp, in
cui non fa mistero della sua predilezione per Daniel Schmidt, i
cui film, peraltro non sprovvisti d'autentica qualità artistica, sono apoteosi Camp. Ma il
buon gusto del cattivo gusto
non è peculiare dell'epoca della Sontag. Non più di una quindicina di anni fa Sellerio pubblicava un libercolo piuttosto appetitoso, il Dizionario snob del cinema di David Kamp e Lawrence Levi, dove si apprendeva che
tra le pellicole ricercate dai cinefili più smancerosi c'erano i
film di Russ Meyer, la cui inquadrature evocano sfacciatamente la grafica di riviste come
«Playboy», lo pseudo-espressionismo coreografico di Guy
Maddin, il Corman-Poe e l'ultimo Suzuki. E che tra i film di
culto presso spettatori esigenti
v'è una sorta di fumettaccio gotico-pop a timide striature sadomas o: Ilboia scarlatto. In un altro volume dello stesso genere, scritto questa volta da un
francese, Fabrice Gaignault, Il
dizionario di letteratura ad uso degli snob (Excelsior 1881), figuravano, invece, quali autori ricercatissimi dai sibariti contemporanei, Jean Lorrain e
Jean de Bosschère. Tutto ciò a
riprova del fatto che i termini
discussi con sorprendente ricchezza di materiali in questo
numero 41 di «Riga», sebbene
evochino con ogni probabilità
in un lettore italiano gli anni
sessanta del secolo scorso, sono tutt'altro che inattuali.