Recensioni / Per una nozione di Occidente

Nell'ambiente accademico, non solo italiano, vige la bruttissima abitudine di considerare qualsiasi apertura d'interessi un'invasione di campo, come se la missione dello studioso non fosse quella di andare alla ricerca del nuovo anziché di ripetere fino allo sfinimento i contenuti della tesi di laurea o di dottorato. Un intruso in questo senso è ora certamente Matteo Di Gesù, che non è un ariostista, ma si è intrufolato nel campo, non troppo fortificato in verità, degli interpreti dell'Orlando furioso per verificare ipotesi di lettura e proposte di ricontestualizzazione a partire da un dato apparentemente marginale, la presenza degli Ottomani nel tessuto del poema, eppure in grado di dialogare con prospettive recenti di orientalismo, postcolonialismo e weltliteratur (che spesso sono state applicate in maniera piuttosto rozza anche alla letteratura del Rinascimento). Per farlo si è munito delle scorte bibliografiche adeguate, in modo da affrontare il testo ariostesco nella chiave che più che gli si addice, che è quella della storia della cultura, dall'orizzonte prevalentemente politico: immettendo Ariosto nel contesto dell'ossessione turca così puntualmente ricostruita da Giovanni Ricci in due decisivi libri pubblicati dal Mulino (Ossessione turca, 2002; I Turchi alle porte, 2008) e da Marina Formica in una capitale monografia sulla lunga durata apparsa da Donzelli (Lo specchio turco, 2012), Di Gesù sfugge ai classici problemi dell'armonia e dell'ironia del poema per rivendicarne la dimensione poeticamente "militante" nell'attualità delle guerre d'Italia (con troppo caute virgolette). Non si tratta certo di negare l'orizzonte fantastico delle storie di armi e amori dei cavalieri erranti, ma di correggere il tiro di una critica troppo spesso adagiata nella ripetizione di categorie di comodo, perché attribuire ad Ariosto lo statuto di poeta della crisi del Rinascimento, in dialogo più con Machiavelli e Guicciardini che con i libri di cavalleria medievale o i classici allora appena riscoperti dagli umanisti, risulta ancora sgradito a chi non vuole riconoscergli uno spessore d'impegno intellettuale.
Di Gesù induce invece il testo del Furioso a un confronto serrato con l'orizzonte politico del petrarchismo contemporaneo, che è argomento noto ma ancora da indagare in profondità (a partire ora da un bel saggio di Chiara Natoli, Petrarchismo politico (1525-1565). Modelli, forme, terni della lirica civile nel Rinascimento, pp. 262, € 32, Pensa Multimedia, Lecce 2021), facendo della questione italiana il centro del proprio discorso ariostesco: dal fondamentale canto XVII, dove la chiamata alle armi per una crociata antiislamica risuona degli echi di Pio II e Basilio Bessarione, alle ottave rifiutate per la storia d'Italia recuperare nel discorso critico da Alberto Casadei tra La strategia delle varianti (Pacini, Fazzi 1988) e La fine degli incanti (FrancoAngeli, 1997), Ariosto sembra capacedi istituire una riflessione collettiva su questioni identitarie e politiche che finora sono state solo in parte valorizzate. Proprio perciò si può accettare che Di Gesù parta dal saggio recente di Alberto Asor Rosa su Machiavelli e l'Italia. Resoconto di una disfatta (Einaudi, 2019), che certo non è tra le letture più perspicue e aggiornate del segretario fiorentino (su cui la bibliografia si arricchisce quasi quotidianamente, da Michele Ciliberto a Gabriele Pedullà), ma che ha probabilmente il merito di creare quel cortocircuito tra Machiavelli e italianità che Di Gesù trapianta di peso nel proprio discorso ariostesco, con una programmatica dichiarazione di metodo che farà storcere il naso agli ariostisti stricto sensu, ma potrà essere anche accolta come linfa vitale per chi ama introdurre sguardi di sbieco, visioni tangenziali e sviluppi reticolari.
Di Gesù fonda tuttavia il suo saggio (etimologicamente: un vero e proprio assaggio, di lettura e di metodo) prima di tutto su due elementi: un processo di ricostruzione contestuale, dall'orizzonte bellico della Ferrara contemporanea (le battaglie della Polesella, 1509 e di Ravenna, 1512) alla crisi della civiltà umanistica di fronte alle nuove invasioni barbariche del tempo (fino all'apparizione della "tedesca rabbia" e dei "villan bruti" per sintetizzare il sacco di Roma nell'edizione del 1532). e un percorso di analisi testuale, dal dose readingdel canto XVII dell'Orlando furioso (di cui si mette in rilievo. la tramatura intessuta di reminiscenze del Petrarca politico) alla panoramica tematica sulla rappresentazione del Turco nella poesia civile del XVI secolo, tea Bembo e Giovio, per affrontare infine i nodi decisivi dell'identità, dell'alterità e del conflitto che più gli stanno a cuore, provenendo da studi sull'italianità, la dimensione plurale del testo letterario e l'importanza della ricezione ai fini dell'interpretazione.
Evitato tanto il rischio del facile orientalismo, per cui Ariosto starebbe codificando letterariamente un conflitto tra civiltà (rischio verso cui inclina pericolosamente un libro recente di Jo Ann Cavallo Il mondo oltre l'Europa nei poemi di Boiardo e Ariosto, Bruno Mondadori, 2017, che Di Gesù cita forse un po' troppo frequentemente), quanto quello opposto ed equivalente della dismissione, per cui tutto si ridurrebbe a puro gioco letterario nell'universo del classicismo del tempo (come ha voluto una tradizione di lunga durata ancora dura a morire), il critico sostanzia la sua analisi con la lettura in controluce della barbarie straniera nel poema come denuncia delle pratiche mercenarie in vigore nel primo Cinquecento, fino a riconoscere la presenza, sullo sfondo della crisi italiana, di "un discorso identitario volto a definire e a polarizzare, quantomeno in termini di immaginario e di paradigmi culturali, quella nozione di 'Occidente' che si sedimenta agli albori della modernità europea".
Ne emerge un poema intimamente radicato nell'attualità, profondamente legato alla storia, sensibile ai conflitti e agli scontri di potere del proprio tempo, "che sembra dar voce a una sorta d'inconscio politico collettivo". Sarebbe utile, certo, ora, far interagire questa lettura con l'universo cavalleresco del poema, tra realismo e allegoria, militanza nell'attualità e nostalgia della cortesia, sguardo politico e visione fantastica, sulla scorta delle definizioni più problematiche dell'armonia aríostesca come amara (Albert Russel Ascoli) e della sua ironia come inquieta (Giuseppe Sangirardi); ma a Di Gesù va riconosciuto senz'altro il merito di un'invasione di campo che è sguardo rinnovato, documenrariamente fondato e criticamente agguerrito. Non più campione isolato di una sublime arte poetica e narrativa al di sopra del proprio tempo, l'Orlando furioso sarà sempre di più da leggere nel suo dialogo con le costanti di una cultura, quella rinascimentale, che ancora va definita meglio nella dialettica tra magnificenza e crisi, splendore estetico e declino politico, istanze municipali e tensioni europee.