Ma allora, dov'è Bari? È la domanda che potrebbe serpeggiare in
queste ore nel capoluogo pugliese,
a seguilo dell'uscita in libreria del
nuovo libro fotografico di Luciana
Galli (Bari, 1942) dal titolo perentorio: Bari non è una città italiana
(Edizioni Quodlibet). Un testo destinato a far discutere sull'identità
globale, ma anche sulla secolare
esterofilia della città, sulla sua spinta modernista e sul suo connaturato levantinismo commerciale, ma
soprattutto un libro in grado di rileggere stilemi ed iconogratie di
un territorio che l'autrice interpreta catturando le sue "anticartoline", immagini ironiche e mai convenzionali.
L'intuizione muove da una suggestione di Julio Cortàzar e dal suo
Componibile 62 (1968). Da una cartolina poggiata sottosopra sulla
scrivania, lo scrittore argentino
scopre per la prima volta una città,
Bari, e non la riconosce. E allora la
inventa, "guardandola sottosopra
con gli occhi socchiusi", la immagina con una "corona marina in alto"
e di sotto "infinite celle scintillanti", quasi un favo o una rete lanciata verso il mare. "Ecco, Hélène, io
potrei raccontare così la mia Bari, a
testa in giù e ritagliata, su scala diversa".
E già la copertina del libro ribalta l'orizzonte delle attese: lo skyline della città capovolto, con il mare a campeggiare in sommità. Così
si accede a questa Bari di Luciana
Galli, fotografa di rilevanza nazionale il cui archivio è stato vincolalo e dichiarato "d'interesse storico" dalla Soprintendenza Archivistica e Bibliografica di Puglia e Basilicata nel 2019. Da oltre cinquant'anni Luciana rilegge lo spazio urbano della città alterandone
il punto di osservazione e la coscienza critica, guardando le commistioni architettoniche, le trasformazioni antropologiche, la metamorfosi del linguaggio metropolitano e la relazione con il paesaggio
mediterraneo, sempre guardandola sottosopra, fino al punto di scorgere l'immenso patrimonio di colori, a volte distonici ed eccentrici, a
volte capaci di "un'astrazione di delicatezza minuziosa". Con ironia e
un leggero cinismo, la fotografia
di Galli ridefinisce l'immaginario
cittadino attraversando il paesaggio dal centro alla periferia e perlustrando le identità e le specificità
di un luogo e della sua gente.
Ne emerge una città attraversata dalle sue stratificazioni storiche
ma anche da una certa intemperanza verso la provincia, il meridione
che la ospita. "Costantemente abitato dall'impazienza ammetteva
anche il compianto Franco Cassano - lo spirito dei baresi non è paralizzato da un grande passato come
quello che si incontra passeggiando per le strade di Napoli e Palermo, non è seduto su una grande tradizione. Città meridionale solo per
caso [...] Bari bara, finge, imbroglia,
bluffa, senza avere nessun punto
sulle mani, che la sua modernità è
una pura rappresentazione".
Così questa città fugge da se stessa, mutandosi di continuo, fingendosi altro rispetto agli stereotipi
del sud. Il destino di Bari sembra
porsi al di là dei binari della storia,
come un deragliamento sempre in
agguato, scrollandosi di dosso gli
arcaismi e la paesanità che pure gli
si addicono. E allora guarda ad Est
ma soprattuttp a Nord, lungo la direttrice adriatica che da sempre
converge su Venezia e sull'Europa
intera.
Ma è nell'estetica di Galli che
l'immagine del luogo trasfigura;
nel suo lungo lavoro contro la fotografia, contro un'idea stereotipata
e manierista del "paesaggio italiano" ancorato attorno a ineludibili
stelle fisse (Ghirri) e succedanee costellazioni mobili, il suo sguardo si
posa sul sospetto e sulle superfetazioni, sulle allitterazioni visuali
che danno luogo a un'estetica
dell'ostacolo, del promiscuo, della
commistione improbabile tra uomini e cose, tra la storia e le storie,
tra il neolitico e l'acciaio. Come nelle architetture degli archistar Chiaia-Napolitano, gli "americani di Bari" che hanno rinnovato il volto del
capoluogo pugliese negli anni '70 e
'80. 0 come nella prosa di Cesare
Brandi che, in Pellegrino di Puglia<7i>
(1977), si imbatte in una regione
che "a pochi passi da Bari, proprio
sulla strada asfaltata, issa un menhir e, accanto, un cartellone pubblicitario". Galli sembra far propria
quella "spectacular form of amnesia" preconizzata da Ed Rusha
qui incarnata nei codici di un'estetica fotografica molto poco italiana, secondo una intenzione che
proviene dall'amata pittura di Hopper e Hockney, ma forse ancor più
nel solco della prosa realista, esatta e sintagmatica degli Hemingway, dei Faulkner, dei Lee Masters
giunta sino a Bari con tutto il carico portato sulle spalle dai Laterza e
sui pensieri del maggiore interprete e traduttore, Cesare Pavese.
Conformi a queste tesi anche le
parole dello scrittore Giorgio Vasta
che attraversa le oltre 150 immagini a colori del volume addentrandosi in una narrazione lirica e incalzante tra "banner, allestimenti,
mock up, trompe-l'oeil, vetrofanie,
murales, scene: fondali, appunto,
che però tutt'altro che starsene sullo sfondo avanzano, si appostano,
si proiettano verso lo sguardo generando una combinazione di costruzioni originali (quanto splendidamente enigmatico diventa adesso
questo aggettivo) e di apparati effimeri. A Bari, dunque, il fittizio è
reale, e la città esiste anche attraverso l'impulso continuo a scenografarsi".
A proposito di scenografie. In
questi giorni, mentre il libro si diffonde negli ambienti dell'arte e della fotografia italiana, Bari sfoggia
un'altra delle sue contraddizioni.
Da un lato il continuo tentativo di
paludamento entro gli stilemi arcaici leggi colosso san Nicola
dall'altro il solito tentativo di farlo
all'americana: una statua della libertà fatta in casa.
E dunque, ancora più convintamente, Bari non è una città italiana
è davvero un libro che mancava,
uno sguardo che osserva la città
dal di dentro, nella sua voglia - o
nella sua ansia di metamorfosi e
superamento, anche a costo di
qualche fallimento (Eataly chiude,
un altro corpo estraneo?).