Recensioni / Il giovane Hugo von Hofmannsthal a un amico guardiamarina, lettere dall'altrove

Bisogna tenere nel cuore questo epistolario 1892-95, dove alle domande, ingenue e neces

Fino a non molti anni fa, furoreggiava un libricino Adelphi che tantissimi aspiranti poeti e scrittori tenevano, secondo quanto prefigurava e prescriveva astutamente il risvolto di copertina, come una sorta di breviario di vita prima ancora che di poesia. Si trattava delle Lettere a un giovane poeta di Rilke, e molti ricorderanno il fervore con cui si giurava sul passo più citato: «confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere. Questo anzitutto: domandatevi nell'ora più silenziosa della notte: devo io scrivere?». Tradotto nel 1980, alle soglie di una ripresa di interesse per la lirica intesa nell'accezione più tradizionale e autoreferenziale del termine, quel libro fu un evento non soltanto editoriale. Se un evento del genere, con tutta la molteplicità dei fattori che vi presiedono, fosse non dico producibile ma almeno predicibile a piacere, sarebbe bello che a fornirgliene occasione fosse oggi un altro carteggio, quello intercorso tra il giovane Hugo von Hofmannsthal e il guardiamarina Edgar Karg (Le parole non sono di questo mondo Lettere al guardiamarina E. K. 1892-1895, Quodlibet, pp. 127, 12,00, a cura di Marco Rispoli). Vorrebbe dire che tante cose sono cambiate, e non in peggio. La prima differenza è che Edgar Karg non era un giovane poeta; la seconda che le sue lettere, a differenza di quelle del corrispondente di Rilke, è possibile leggerle a fianco di quelle di Hofmannsthal. Si tratta in altre parole di un dialogo vero, tra un ventenne di genio che ad altezza 1892 è già Loris, l'enfant prodige della letteratura austriaca autore di poesie e di saggi che fin dal loro apparire stupirono per la perfezione formale l'ambiente artistico viennese, e un coetaneo che al contrario non brilla affatto per intelligenza, maturità espressiva, acume intellettuale. Il poeta non parla qui a un altro poeta, ma a una persona comune che proprio in quanto tale gli pone però domande tutt'altro che comuni, più che per il loro contenuto, per l'ingenua fiducia di poter ottenere in cambio una risposta chiara, univoca e definitiva. Non le domande che un iniziato porgerebbe a un maestro, ma quelle che tutti noi in quanto lettori - compresi anche, si spera, i professionisti della lettura - poniamo agli scrittori che amiamo. Certo Hofmannsthal non si sottrae, spiega paziente, cerca e trova bellissime immagini chiarendo probabilmente anche a se stesso, nel momento in cui cerca di renderle chiare a un altro, le sue ragioni. A leggerle in filigrana, queste lettere costituiscono una vera miniera di corrispondenze e di luoghi paralleli con la poetica implicita ed esplicita delle altre sue opere. Mestiere da specialisti, cui è peraltro dedicato il monumentale ma utile apparato di note apposto al volume; mentre quello che più tocca, colpisce e commuove il lettore comune è vedere come quei temi e quei motivi reagiscano e si ridefiniscano nell'incontro con la parola tanto più fragile e indifesa e occasionale del suo predecessore Edgar Karg.Che cosa chiede Edgar al suo amico Hugo? Di tutto, tranne che come fare a diventare a sua volta un poeta. Gli chiede invece come vivere: che ragione ha la mia sofferenza? Come faccio ad affrontarla? Che cos'è un essere umano? Che libri devo leggere per capire queste cose? Se l'erudizione non serve a nulla, che significa essere colti? Cos'è questa socialdemocrazia di cui parlano tutti? E soprattutto, la più sprovveduta e la più fondamentale delle domande che si possono - che si devono - porre a uno scrittore: che cosa pensi di me? Che cosa posso vedere e comprendere di me attraverso te? «Ti chiedo molto, vero? Nelle tue lettere c'è però qualcosa che io avevo già pensato esattamente allo stesso modo e che tuttavia fino a quel momento non ero ancora riuscito a definire con precisione. C'è una qualche parola latina o greca per indicare questa capacità? Edgar non può sapere quanto abbia colto nel segno quando chiede se esista una parola estranea, lontana, straniera, in grado di dire quello che lui, con le risorse espressive della lingua comune, non è capace di mettere a fuoco. Non può sapere cioè che la risposta che tanta parte della teoria e della pratica artistica novecentesca avrebbe dato alla sua domanda sarebbe stata che quella parola straniera è appunto la parola dell'arte e della poesia: i bei libri, dirà Proust, sono scritti in una sorta di lingua straniera. Ed è questa, almeno in parte, la risposta che gli dà anche Hofmannsthal. Tra quella che Mallarmé chiamava la lingua della tribù e la lingua della poesia non c'è rapporto possibile, si tratta di due realtà incommensurabili, alienata e caduca e meramente strumentale luna, autentica e originaria e capace di scendere nelle più intime ragioni dell'essere l'altra: «Questa è infatti la radicale differenza che esiste tra le parole che servono alla comprensione, come accompagnamento e ausilio a un'azione, e quelle che invece compongono le poesie; perché queste ultime sono i simboli indistruttibili dell'eterna esistenza».Quanto Novecento è uscito da formule come questa; quante poetiche dell'intransitività, dell'autoreferenzialità, del rifiuto della comunicazione, elaborate sotto i cieli più diversi, dal formalismo russo allo strutturalismo francese, dall’ermetismo alla protesta avanguardistica che ne rovescia il segno lasciando però intatti i poli dell'opposizione - arte e vita, per formularla nei termini di quell'estetismo fin-de-siècle in cui si pose per la prima volta. Un Novecento cui proprio Hofmannsthal fornirà con la Lettera di Lord Chandos, testimonianza di una drammatica crisi del rapporto tra linguaggio e mondo, uno dei manifesti programmatici più radicali. Da una parte, la domanda ingenua e irriducibile di chi chiede allo scrittore di spiegargli la vita. Dall'altra, una risposta affidata a una lingua che con la lingua della vita proclama di non voler più avere a che fare. Come testimonianza di quel divorzio, le lettere di Edgar Karg possono stare degnamente accanto a quella dell'amico di Bacone.Ma in quel carteggio non c'è soltanto il segno di una crisi. C'è anche, almeno accennato, il suo possibile superamento. Come avrebbero potuto altrimenti Edgar e Hugo parlarsi, comprendersi, volersi bene? E forse è proprio perché si rivolge a chi si trova confinato nell'inerte inespressività del linguaggio quotidiano che Hofmannsthal estrae da sé la consapevolezza, insieme scettica e rincuorante (e oggi fin troppo vulgata ma allora paradossale e quasi impensabile), che non solo il linguaggio poetico ma ogni linguaggio è metaforico, ed è vincolato nella lotta per impadronirsi delle cose allo stesso rischio di mentire e alla stessa promessa di felicità: «ciò che è veramente poetico è soltanto l'espressione velata di una verità molto profonda, e se si penetra in profondità svanisce il carattere metaforico [...]; tutte le cose dell'esistenza (compresi gli uomini) sono da porre in relazione tra loro, sono addirittura uguali nella loro essenza, sono capaci di qualsiasi influsso le une sulle altre e stanno in una misteriosa relazione morale tra loro [...]: tutto questo è ciò che io chiamo all'incirca comprendere la vita». Perché la vera arte poetica altro non è, scrive in un'altra lettera, che «arte dell'interpretazione», lo sforzo «di un uomo che vuole venire a capo della vita e cerca di chiarirne il senso e interpretarla»; e cioè, esattamente, quello che fa e in cui chiede di essere aiutato Edgar.«Molti destini s'intessono accanto al mio, / Tutti li rimescola nel suo gioco l'Essere, / E la mia parte è qualcosa di più che la sottile fiamma / O la stretta lira di questa vita»; così scriverà Hofmannsthal nel 1896, a pochissima distanza da quelle lettere, in una delle sue poesie più belle. È così assurdo attribuire quella consapevolezza anche all'intrecciarsi del suo destino con quello di Edgar Karg, che dieci anni dopo, in punto di morte, è ancora capace di scrivergli frasi come queste: «se riesci a trovare un quarto d'ora libero, mi scrivi, per favore, quel che intendi per ‘cultura’; cultura di un uomo, di una città, di un paese»? La risposta non fece in tempo ad arrivare. E tuttavia Hofmannsthal stava già da tempo rispondendo non soltanto a Edgar ma a tutti, con le sue scelte letterarie, con il rifiuto di un'arte che parlasse solo a pochi, con la militanza teatrale, con la lunghissima collaborazione con Richard Strauss. Può darsi che non fosse la risposta giusta, fondata com'era da un'idea di civiltà e di Europa conservatrice e già sconfitta dagli eventi (anche se è difficile immaginare una più perfetta anticipazione del postmoderno del citazionistico teatro musicale elaborato con Strauss), e che quelle rotture cui Hofmannsthal si rifutò andassero compiute comunque; non è questo il punto né il luogo per discuterne. Rimane in ogni caso a sua gloria - da condividere ex aequo con l'impavido domandare del suo amico - l'aver sentito il dovere di rispondere, come non sono stati in molti a fare in un secolo letterario tanto innamorato delle proprie domande da non intendere quasi mai quelle degli altri.