Recensioni / Quando Miles diventò elettronico

Di pochissimi artisti si può dire che siano stati protagonisti, al pari di Picasso, di (quasi) tutte le rivoluzioni culturali del proprio tempo. Tra questi, nel campo del jazz, c’è Miles Davis. Soprattutto, se non esclusivamente, Miles Davis. Di una delle sue ultime, grandi stagioni sperimentali ci parla il libro di Bob Gluck, Miles Davis. il Quintetto Perduto e altre rivoluzioni, con il quale l’editore Quodlibet ha arricchito la collana “Chorus” di un nuovo, prezioso tassello.

Alla fine degli anni Sessanta, il cosiddetto “Second Great Quintet” (1964–1968) acustico di Miles Davis con Wayne Shorter (sax tenore), Herbie Hancock (piano), Ron Carter (contrabbasso) e Tony Williams (batteria), che aveva seguito un percorso in qualche misura analogo a quello del primo (quello di Kind of Blue con Coltrane, per intendersi) seppure con qualche tentativo di sperimentazione free, soprattutto negli assoli di Miles, è in via di una nuova definizione. “Un mucchio di cose stavano cambiando nella musica fra il 1967 e il 1968”, scrive il trombettista nell’autobiografia, “c’erano in giro un sacco di cose nuove […] che mi stavano portando verso il futuro”. Miles, a quel tempo, anche influenzato dalla seconda moglie, la cantante funk e soul Betty Mabry, ama ascoltare James Brown, Sly and the Family Stone e, soprattutto, Jimi Hendrix. Il primo cambio di guardia nella formazione avviene al contrabbasso: Ron Carter rifiuta di suonare il basso elettrico e, nell’agosto 1968, dopo una brevissima transizione, viene rimpiazzato dal giovanissimo Dave Holland, che suona sia il basso acustico, sia quello elettrico. Gradualmente, anche gli altri titolari della sezione ritmica intraprendono strade nuove e più personali. A settembre dello stesso anno, è Herbie Hancock a lasciare, sostituito da Chick Corea, mentre, da marzo 1969, Jack DeJhonette è il nuovo batterista. Miles non porterà mai in uno studio d’incisione questo ensemble, che lo accompagnerà, invece, in numerose esibizioni dal vivo delle quali esistono solamente alcune registrazioni più o meno clandestine ad eccezione di Miles Davis at Fillmore: Live at the Fillmore East, che è, però “sforbiciata in modo tanto clamoroso”, scrive Bob Gluck nell’introduzione del libro, “da oscurare la propria essenza”. Le difficoltà di ascoltare le performance di questo gruppo, a meno che non lo si fosse fatto dal vivo, diedero vita a una sorta di leggenda che prese il titolo, a dire il vero assai evocativo, di “The Lost Quintet”, “Il quintetto perduto”.

Con questa nuova formazione, con le «robuste» personalità musicali che la compongono e con gli strumenti elettronici che alcune di esse hanno adottato, Miles Davis avvia un radicale processo di sperimentazione che non lo condurrà immediatamente al cosiddetto «jazz-rock», ma al lungo sviluppo di una “strategia estetica pluristratificata, per nulla lineare” – scrive Claudio Sessa nella prefazione all’edizione italiana – “esplorando contemporaneamente territori molto diversi”. Il suono del Quintetto perduto è, infatti, “più elettronico che elettrico, e richiama alla mente la musica […] d’avanguardia più che il rock, il pop o il funk”, conclude Sessa. Il punto d’arrivo di questo percorso sarà rappresentato dalla registrazione in studio di tre album – In a Silent Way (1969), Bitches Brew (1970) e A Tribute to Jack Johnson (1970) – che vedranno, però, tra gli esecutori, non solamente i membri del nuovo quintetto, ma anche numerosi altri artisti in formazioni più ampie e diversificate (con la moltiplicazione di alcuni strumenti: bassi, pianoforti elettrici, batterie e altre percussioni), che comprenderanno vecchi collaboratori e new entry: John McLaughlin, Herbie Hancock, Josef Zawinul, Tony Williams, Lenny White, Don Alias, Juma Santos, Airto Moreira, Bennie Maupin, Larry Young, Harvey Brooks, Steve Grossman, Michael Henderson, Billy Cobham e Sonny Sharrock.

Bob Gluck indaga questa sorprendente stagione sonora di Miles Davis senza trascurare quanto, contemporaneamente, succedeva nel mondo musicale attiguo, e senza mai dimenticare l’altrettanto sorprendente stagione storica, politica e sociale alla quale l’esperienza di Davis fu profondamente ancorata.

Bob Gluck è pianista, compositore, storico del jazz, rabbino e professore di musica alla State University of New York, Albany. È autore di numerosi saggi musicali e ha pubblicato undici dischi con le etichette Fmr, Ictus e Emf Media.

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