Recensioni / Hofmannsthal. Prigioniero nel mondo delle parole

Una prova di fedeltà. Alle promesse che il giovane Loris, ancora minorenne e pseudonimo, aveva fatto alla Vienna letteraria stupefatta di leggere i prodigiosi poemetti dello sconosciuto ginnasiale prodige. E, letta a ritroso, alle intuizioni che l’artista non ancora trentenne – ma già überreif, troppo maturo: fino alla stanchezza – avrebbe espresso con la sua celeberrima dichiarazione di resa di fronte alla poesia. Ma poi fedeltà all’amico che – suo conterraneo, suo quasi coetaneo, eppure impegnato a condurre una vita così distante e diversa dalla sua – gli prestava un ascolto devoto. E, soprattutto, fedeltà a se stesso: alla vocazione precoce che il precoce successo non doveva distrarre con le seduzioni della mondanità.
     Aveva appena diciotto anni Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) quando – già ben consapevole di sé e del compito che l’arte, insieme con una cospicua dote di talento, gli aveva assegnato – era chiamato a dimostrarsi fedele: di fronte alla propria coscienza d’autore e allo sguardo attento di un lettore esclusivo. Perciò il carteggio che lo scrittore intrattenne con Edgar Karg von Bebenburg, allora guardiamarina ventenne in viaggio per mari lontani, rappresenta una prova di autenticità più importante di quella di un documento biografico e storico, o di un campione – raccolto dal vero, dietro le quinte, fuori dalla scena – della scrittura spontanea di un grande.
«Grandi», nel senso di adulti, in quell’arco di tempo tra il 1899 e il 18l5, i due Briefpartner – i due pen-friens - non erano, né si sentivano ancora. Hugo, il poeta, a due anni dal suo debutto nella società delle belle lettere, si era appena impossessato, con la maggiore età e il diploma superiore, del proprio nome, mascherato ai tempi della scuola dietro a quello di Loris Melikow per ovviare al divieto di pubblicare imposto ai liceali. E se lo portava addosso con qualche imbarazzo: con il disagio di vedersi intrappolato nella propria geniale giovinezza, inchiodato a un ruolo (ancorché favoloso), paralizzato nella propria crescita. Edgar, il cadetto di marina, ancora fresco dell’addestramento dell’Accademia di Fiume, era subito salpato con la Marina absburgica a bordo della corvetta Saida per l’Asia orientale e, agli occhi dell’amico rimasto a terra, già faceva la vita di un uomo, di «un lupo di mare».
   «Tu vedi nuove terre e regioni, io leggo libri; tu provi i pericoli veri e belli e io, almeno talvolta, il piacere di un’eccitante confusione» gli scriveva Hugo nella prima delle sue lettere. Era la confessione di una punta d’invidia e un invito. A confessare che anche laggiù, al largo dell’Indonesia, «tra i tramonti color viola, le scimmie e le liane» la vita non era più eccitante o più virile che nella capitale dell’Impero. Il giovane marinaio ammetteva anzi l’opacità della coscienza e dei sensi cui condannavano le fatiche di bordo, descriveva l'estraneità con cui si offrivano agli ormeggi le più esotiche costiere, chiedeva al coltissimo corrispondente consigli di lettura con cui esplorare la vita per davvero.
    L'uno sognava dell’altro, insomma. L’uno fantasticava delle condizioni dell’altro. E il «pathos della distanza» tra le loro due nature, aumentato dalla reale distanza geografica che li separava, rendeva anche più appassionato il confronto tra i due ragazzi. Ma, attenzione: «In genere non mi piace il pathos, lo reputo un segno di cattiva educazione», avvertiva saggiamente von Hofmannsthal. E infatti a rendere appassionanti quelle loro lettere non sono (solo) le descrizioni dei bei mondi lontani – L’isola di Sumatra, L’arcipelago delle Molucche, la Dalmazia, l’Australia – e del bel mondo di ieri, fatto di partite a tennis e regate a vela, cavalcate e battute di caccia, party danzanti e dopocena galanti o, meglio: afterdinnerfiltrations, come li definiva il giovane nobiluomo austriaco e poliglotta. Questa non è che la verniciatura – autentica, sì, e preziosa – di superficie.
     Sotto le ammalianti avventure di Edgar, sotto le brillanti frequentazioni di Hugo si svela – nel tono palpitante della confidenza giovanile – il malessere di entrambi. Del navigatore in cerca di parole per le proprie esperienze. Del poeta in cerca dell’esperienza significativa che sfuggiva alle proprie parole. È il più classico (e il più Sublime) dei paradossi dell’arte: quel binomio vita/forme, scrittura/avventura, linguaggio /esistenza che, vissuto à deux e a due voci raccontato, perde quel tratto di tormentato solipsismo tipico dell’artista concentrato su se stesso.
    «Le parole non sono di questo mondo» scriveva nel ’95 von Hofmannsthal all’amico sperduto in mondi lontani: con la bella espressione ripresa nel titolo dell’epistolario ora per la prima volta – e amorosamente – tradotto e curato da Marco Rispoli per le edizioni Quodlibet (pagg. 128, 12 euro). «Sono un mondo a se stante, un mondo del tutto indipendente». E aggiungeva: «Non si potrà mai dire qualcosa proprio così com’è»: presagendo quello «sterile struggimento» che l’avrebbe indotto, pochi anni dopo, con la famosissima Lettera di Lord Chandos del 1902, ad annunciare la propria rinuncia a ogni forma di letteratura. Non è un caso che anche quella volta scegliesse di scriverlo in una lettera. Poi però, come anche prima, dopo la lettera di Chandos come dopo le lettere a Karg, Hofmannsthal avrebbe continuato a soggiornare nel mondo delle parole, per tutta la vita. Fedele a se stesso. Epistolografo insincero...

   Un conservatore    rivoluzionario
    Pronunciata da un poeta l'espressione – una contraddizione per la logica, un ossimoro per la retorica - suona sintetica e pluralmente significativa come il frammento di un verso. Il fatto è che a quella «Rivoluzione Conservatrice» che percorse l'Europa entre deux guerres avendo come centro propulsore la Germania della Repubblica di Weimar, molti furono gli artisti che presero parte. Da Mann a Benn, da Von Salomon, ai fratelli Jünger. Negli ultimi anni della sua vita, negli anni Venti, anche von Hofmannsthal si schierò (im)politicamente-altra espressione contraddittoria e ossimorica formulata dal Mann neoconservatore - con quel movimento che, se ebbe un potente effetto di «rivoluzionario»
engagement- antiliberale, antiparlamentare, antiprogressista - pure faceva capo a un ideale squisitamente intellettuale. «Pensata» nei termini universali dell'arte, dell'aristocrazia dello spirito e della Kultur etica ed estetica che Nietzsche prima di Spengler aveva contrapposto alla moderna Zivilisation, quella battaglia contro la modernità fu combattuta dal poeta su molte pubblicazioni, non ultima la Rivista europea del Principe Karl Anton Rohan. Fa impressione leggere, nel volume Marsilio con i suoi interventi di allora (La rivoluzione conservatrice europea, pagg. 108, euro 10,50) il tardo Hofmannsthal che parla del vortice dissacrante della razionalità scientifica, della degenerazione di quel tratto commerciale- mercantile che sfigura il potere umanizzante del lavoro, della «catastrofe elementare» cui conduce il dominio della tecnica se sfugge di mano.