La disputa fra clas sicisti e romantici venne ufficiosamente
anticipata nell'ultimo scorcio del Settecento dalla querelle
des anciens et des modernes che al presente era più o meno un test sull'Illuminismo e, al passato, sulla
persistenza dell'Antico Regime, vale a dire il Medioevo numinoso e fantastico di cui proprio i romantici si sarebbero
riappropriati. Illuminista suo
malgrado e invece romantico
in pectore, poi molto apprezzato
in piena Restaurazione da Gérard de Nerval e Charles Nodier,
fu lo scrittore poligrafo Jacques Cazotte (1719-1792). Provinciale di Digione, rampollo
di una piccola nobiltà di toga,
entrato da giovane nella amministrazione statale e presto trasferito nella Martinica
(dove avrebbe preso moglie,
una creola), collezionista di
miti e leggende, verseggiatore prolisso, abile satirico e parodista (sua per esempio è la
falsa prosecuzione di un fortunato poema volterriano, La
guerre civile de Genève, 1767), appassionato di occultismo e dotato a quanto sembra delle facoltà di un medium, a lui si riferisce l'aneddoto a lungo circoTante proprio nella cerchia di
Voltaire: pare infatti che una
sera del 1788, nel corso di un
simposio della Académie, al
brindisi augurale egli levasse il
bicchiere prevedendo di lì a pochi mesi sia lo scoppio della
Grande Rivoluzione sia la morte violenta di alcuni convenuti
a tavola fra cui l'allibito marchese di Condorcet.
Il solo libro che i posteri abbiano ereditato da un uomo così singolare resta un breve romanzo, un autentico piccolo
classico dal titolo che è già tutto un programma (un titolo
che associa luce meridiana e
oscurantismo, l'Amore e il Maligno), cioè Il diavolo innamorato, riproposto nella storica
versione di Ugo Dettore che
uscì nella BUR primitiva, poverissima brossura grigia, nel
1952 (Quodlibet «Compagnia
Extra», con un testo di Ermanno Cavazzoni, pp. 133, €
13,00): e qui va aggiunto subito
che nell'ultimo secolo il romanzo ha goduto in Italia di
ben dodici edizioni (l'ultima da
Donzelli nei 2005, a cura di Gaia Panfili, integrata da un d'après di Andrea Camilleri, Il diavolo che tentò se stesso) fra cui, memorabile, quella di Franco Cordelli nel 1992 per la collana di
Einaudi «Scrittori tradotti da
scrittori». Tutta settecentesca è
la rapidità del racconto, la sua
imbastitura velocissima e priva di qualunque introversione,
non ci fosse però a contraddirla l'eruzione a momenti, e si direbbe premonitoria di un Ottocento molto cupo, la zona sismica dell'immaginario che
viene dal cuore dei secoli bui o
cosiddetti: come può annunciarsi Satana, in effetti, se non
nella guisa di un animale esotico, un cammello, ovvero nei
sembianti di un giovane efebico dove infine si stravisano le
carni alabastrine e tentatrici di
una fanciulla in fiore?
Il diavolo innamorato è appunto la storia di un giovane, Alvaro, e della sua prolungata tentazione dove si contengono
curiosità e paura, sete di conoscenza e angoscia di autodistruzione. Spagnolo di venticinque anni, capitano delle
guardie del re di Napoli, il protagonista con l'ambiguo soccorso di un commilitone riesce a evocare Belzebù, il quale
prima lo spaventa in forma di
cammello, lo blandisce e lo irretisce trasformandosi via via
in cagnolino e nel paggio dolce e silenzioso che prelude alla epifania di Biondetta, dai
tratti soavi e luminosi come
una Laura petrarchesca. Il giovane nemmeno si accorge che
sta legandosi indissolubilmente a quella entità cangiante e metamorfica, che con essa ha stretto un patto rinnovatosi a ogni passaggio di fase:
Alvaro fuma la pipa,
illustrazione
di C. Pierre Marillier
(Jean-Michel Moreau
incisore) per Le diable
amoreux di Cazotte,
1772
ne sente intera l'incombenza, l'ombra, l'ossessione, ma
nello stesso tempo è sedotto
dalle chances di vita, benessere, felicità che gli si profilano
regolarmente.
Solo un cattolico dogmatico
e fiero del connubio di trono e
altare quale Cazotte, solo un
uomo pari a lui invischiato letteralmente nella tentazione
(per etimologia qualcosa che
sorprende e che assale) avrebbe potuto svilupparne narrativamente la dinamica e mostrarne la ambivalenza. Quanto a ciò, le tappe del breve romanzo cadenzano altrettanti cedimenti o cadute laddove alla volontà di scacciare
il Maligno non corrisponde
tuttavia da parte del protagonista la capacità di farlo:
perché il Maligno è un'ombra impossibile da calpestare, sempre astante pure
quando si penserebbe altrove, sempre servizievole e
«utile» nel risollevare dalla
caduta che prima ha provocata. Alvaro resiste senza mai
resistere davvero, cede ogni
volta all'aiuto del Grande
Soccorritore riservandosi però un'ultima trincea, un tabù che per contravveleno
egli deduce dalla sua stessa
religiosità bigotta, perché Alvaro è tentato con violenza
dalla carne di Biondetta (e visitato da sogni cataclismati
ci) ma sempre resiste e si nega
a un contatto sessuale con lei:
«Ciò che colpisce nel racconto,
che ha colpito i contemporanei e continua anche oggi a
conturbare - scrive nella postfazione Cavazzoni - è l'imperscrutabilità di colei (o colui)
che si ama o si sta per amare,
l'impossibilità di capire se la
mente altrui cela un timido angelo appassionato o un demonio calcolatore; che è la preoccupazione di don Alvaro, se abbandonarsi all'amore o averne paura e resistere».
Nemmeno è un caso che
l'ambivalenza della tentazione sia mantenuta da Cazotte fino in fondo al romanzo per essere sciolta solo con il ritorno a
casa del protagonista, che cerca finalmente la benedizione
(cioè la morte della tentazione
medesima) fra le braccia di sua
madre. Tra la grotta di Portici
dove Alvaro approccia il Maligno e il ritorno nella casa avita
in Estremadura si scandiscono
le tappe del viaggio (Venezia,
Torino, Lione) e dunque la
struttura virtuale di un romanzo picaresco che a suo tempo
Cordelli lesse precisamente
quale ambientazione nel demonico e iniziazione alla mondanità: «Ma se il diavolo è il romanzo, il suo nocciolo, che cosa si potrà ad esso opporre? Romanzo, nella fattispecie, significa empietà, profanazione,
brama. (...) A questo genere di
spirito, a questo motore di romanzi, non si potrà che opporre il ritorno a casa; a questa avventura, niente altro che l'avventura opposta: non la mente, non l'intelligenza, non lo
spirito, ma l'anima».
Nella seconda e definitiva
edizione del romanzo (1776, la
prima invece è del '72), Cazotte
aveva aggiunto un Epilogo (tre
paginette ora inspiegabilmente assenti nella stampa di Quodlibet), una vera e propria mediazione tra il suo sostanziale anti-illuminismo e una sensiblerie
già romantica, dove Alvaro nella versione di Cordelli è definito «soccombente senza essere
una vittima» di un avversario
che alla fine vede distrutti «gli
effetti del suo stesso sistema e
rende incompleto il suo successo». Jacques Cazotte peraltro
non si era mai fatto illusioni e
allo scoppio della Rivoluzione
cercò di cavarsela standosene
alla larga. Arrestato due volte
durante il Terrore giacobino, la
seconda venne mandato alla
ghigliottina e prima di salire
sul patibolo in Place du Carrousel sembra giurasse ancora piena fedeltà al suo Re e al suo Dio
medievale. E lecito suppore
che in quei tempi bui avrà rammentato la cena medianica di
qualche anno prima, quando
uno dei partecipanti e condannati a morte in effigie durante
il brindisi, il grande Nicolas de
Chamfort, replicando per celia
alle sue previsioni apocalittiche gli aveva regalato un aforisma sul Diluvio Universale che
pareva sul serio scritto per lui:
Solo l'inutilità del primo trattenne
Dio dal mandarne un secondo.