Recensioni / Il levitatore di Adrian N. Bravi

Come ve li immaginate gli eroi dei libri? Come dev’essere un personaggio sbucato dalle pagine di un libro perché possiate esclamare “Questo sì che è un eroe!”? Qual è il confine tra eroe e antieroe? Come deve chiamarsi un eroe? C’era una volta un uomo di nome Anteo Aldobrandi che conduceva una vita apparentemente comune, ma custodiva dentro di sé un gran segreto. C’era una volta un uomo semplice che per un caso visse un’avventura straordinaria, o almeno bizzarra. C’era una volta un uomo che viveva in una casa piena di cassapanche, alcune delle quali, ormai, rappresentavano un vero mistero, perché da quando erano morti i suoi genitori non erano più state aperte. Anteo Aldobrandi, tutt’al contrario dal gigante da cui aveva derivato il nome – che, pare, misurasse circa centodieci metri! – era un tipo magro e gracile, e se la forza del gigante risiedeva nel contatto con la madre, Terra, capace di restituirgli sempre rinnovate energie ogni volta che toccava il suolo, la vera forza del nostro Anteo consisteva nella capacità di levitare.

L’importante della levitazione non è quanto uno riesca a staccarsi da terra, ma riuscire a staccarsi e mantenere una propria stabilità. Cinque centimetri o due metri sono la stessa cosa e io, inoltre, per quanto mi riguarda, sono sempre stato un tipo abbastanza morigerato in questo.

A questo punto, a un lettore che non avesse letto il titolo dell’articolo ma che conoscesse la scrittura e il mondo a cui è capace di dar vita Adrian N. Bravi, probabilmente non servirebbe altro per riconoscere il piglio e il carisma dell’autore argentino. E infatti parliamo qui de Il levitatore, romanzo pubblicato nel 2020 dalla casa editrice Quodlibet, nella collana “Compagnia Extra”, che ci consegna un altro particolarissimo personaggio, con la sua peculiare visione del mondo, e che mostra ancora una volta i risultati di un incontro perfetto tra lo scrittore e la lingua italiana. Anteo Aldobrandi ha quarant’anni e un matrimonio fallito alle spalle che però non gli reca sofferenza alcuna. È tornato a vivere a casa dei suoi dopo il divorzio e ha accolto con naturalezza persino la morte dei genitori. Vive in una casa piena di cassapanche e ricordi. Probabilmente non ha mai lavorato, ma vive tranquillo: Anteo è padrone di una forza d’animo notevole, che gli deriva da uno sguardo ingenuo e sereno. I problemi, lo stress, l’odio, i tormenti… appartengono alla vita degli altri esseri umani, e probabilmente Anteo non se ne accorgerebbe nemmeno, se soltanto questi lo lasciassero nella sua pace. Il romanzo prende il via con il ritratto di un Anteo bambino, curato da una nonna iperprotettiva che lo tiene al di qua dalle scorribande dei suoi coetanei e che suscita all’istante la tenerezza del lettore, e prosegue immediatamente con il racconto da parte di Anteo – la narrazione è in prima persona – che all’età di quattordici anni, in seguito a un incidente capitato al padre che si ritrova senza un dito – di cui Anteo si impossessa segretamente fino a trasformarlo in un amico per la vita: il “tutankamino”! – scopre di possedere il potere di distaccarsi dalle miserie umane.

A un certo punto, quasi per magia, mi ero sentito circondato da una specie di venticello arrivato non saprei dire da dove, visto che le finestre erano chiuse, come se un angelo cherubino, invece di soffiare sulla sua tromba annunciatrice di sventure o benedizioni, avesse soffiato su di me per tirarmi su. All’inizio mi ero spaventato, non capivo cosa mi stesse succedendo; inoltre, non mi era chiaro se quella sgravità fosse dovuta alla perdita di peso corporeo o se fosse subentrata qualche forza magnetica. Era una situazione da vertigine. Subito dopo avevo capito che quel venticello era abbastanza vigoroso da reggere me e un animale di grossa taglia insieme, se ci fosse stato in quel momento in camera mia. Sentivo di poggiare su una base solida, sulla quale avrei imparato a fare i miei ragionamenti sulla vita e sulla morte o a spostarmi di qua e di là, secondo l’occorrenza.

[…]

Mi sentivo felice quando ero per aria e siccome la felicità è un sentimento che è meglio non svelare per non attirare l’invidia delle persone, ho trascorso molto tempo della mia vita a nascondermi; non volevo che nessuno mi vedesse fare quella cosa, nemmeno i miei genitori con i quali, in genere, si parlava di tutto senza entrare troppo nella propria intimità, e levitavo in silenzio mentre guardavo l’imbrunire lento del cielo.

Il mondo di Anteo è fatto per lo più di pace e silenzi, di suoni della natura e colori dolcemente digradanti, di cose posate ognuna al suo posto, di pensieri semplici. La società è qualcosa che esiste al di fuori di lui, una entità per la quale non si dà troppe noie, ma che un giorno fa irruzione nella sua vita serena e ne turba la quiete con le sue regole assurde, giungendo alla porta di Anteo in una busta verde pastello, che un postino dall’accento mezzo toscano (una certa indeterminatezza caratterizza elementi che pure hanno un peso nella narrazione: la nonna è mezza molisana, il cuscino che accompagna le levitazioni è mezzo indiano mezzo tailandese, la cagna metà golden retriever e metà un’altra razza) sventola davanti agli occhi suoi, con un fare fastidioso che segna l’inizio di una serie di avvenimenti difficili, per non dire funesti. Il lettore, che empatizza istantaneamente con Anteo, riconosce nel postino impiccione e molesto un nemico della quiete e un ostacolo al compimento del miracolo della levitazione. Infatti, da quel momento in poi, il nostro levitatore incontra mille impedimenti e si trova a fronteggiare una serie di antagonisti: prima su tutti, la sua ex moglie, che lo accusa di molestie all’indirizzo del cane Plotina – che nei giorni concordati Anteo passa a prendere per condurlo a passeggio – e lo accusa di stalking fino a trascinarlo in un processo penale. L’ex moglie non poteva avere nome più appropriato: Ginetta Guerra incarna perfettamente il concetto del nomen omen e, dopo cinque anni dalla separazione e due dal divorzio, dopo che si è anche rifatta una vita con un nuovo compagno, che Anteo soprannomina “Monociglio”, s’inventa di sana pianta una guerra ai danni dell’ex marito, per poi tentare di ritrattare e arrivare ad affidargli la stessa Plotina. Anche Anteo inizia una nuova relazione, con una tale Letizia Cavalcanti, “accuditrice di animali”, il cui cane ingravida Plotina, ma resta misurato persino nell’avventura amorosa e pare infastidito dalla bizzarra banda di amici bipedi e a quattro zampe che la compagna si trascina addirittura in tribunale. Anteo sembra quasi solo contro tutti e ogni piccolo avvenimento sembra congiurare contro la serenità della sua esistenza, conditio sine qua non alla sua attività di levitazione. Quella di Adrian Bravi è una voce originale che reca la traccia riconoscibile dell’immaginario sudamericano, ma che al tempo stesso mostra l’influenza della letteratura italiana del Novecento – su tutti Calvino – e che trova nella lingua italiana una musicalità e una fluidità tali da far pensare a un matrimonio perfettamente riuscito. Bravi riesce a esprimere attraverso i suoi personaggi, qui Anteo, quella semplicità dell’intendere le cose della vita tipicamente argentina, e lo fa in un italiano che diventa lingua estremamente chiara, che sembra pacificare ogni concetto che incontra e pare semplificare ogni aspetto della vita. Lo scrittore argentino, che nel passaggio alla scrittura in lingua italiana ha sempre dedicato grande attenzione alla ricerca del ritmo e della musicalità, è giunto a dichiarare che in fase di lavorazione l’aspetto linguistico è stato in qualche caso predominante, arrivando a imprimere una direzione diversa alla storia. L’originalità di Adrian Bravi consiste anche nel suo essere due volte argentino: lo è per nascita e per avere una visione totale, proprio perché distaccata, del suo Paese di origine, dove ha vissuto per i primi ventiquattro anni della sua vita. Coniugando armoniosamente leggerezza e profondità, Bravi ci offre una favola squisitamente moderna – popolata da molti animali che talvolta hanno un peso decisivo nell’intreccio narrativo – che lascia sognare anche gli adulti meno suggestionabili e li immerge nelle più profonde riflessioni proprio mentre cercano leggerezza. E se la complessità del reale risiedesse unicamente nel nostro sguardo? E se, di conseguenza, il grado di pericolosità dell’avventura denominata “vita” fosse nel nostro modo di approcciarci alla casualità degli eventi? Il vero eroe è colui che combatte oppure colui che riesce a rimanere “puro”, integro, distaccato dalle tribolazioni della vita? Come deve chiamarsi un eroe? E se si chiamasse Anteo?

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