Margherita Palli, la più prestigiosa scenoIVI grafa che abbiamo, una vita passata tra Liliana Cavani e Gae Aulenti e soprattutto Luca
Ronconi, con cui ha arredato il secolo d'oro del
teatro italiano, mi aspetta.
Dobbiamo parlare del teatro: le chiusure, le
riaperture, le coscienze civili, insomma una
cosa molto alta. Svizzera, oltretutto, dicono severissima, lei mi attende a casa sua per le dieci di mattina ma a Milano c'è traffico, un tram
ha investito uno scooter a piazzale Loreto, sono in ritardo. Chissà la cazziata.
Controllo l'indirizzo, entro in un casermone, passo un cortile, la portinaia che sta annaffiando con un tubo che mi va nei piedi mi sgrida lei portandosi avanti, e poi mi manda in un
altro, di cortile, poi scenda giù, ma come scenda, e poi ecco uno scivolo, e poi appare lei, ad
aprire la porta. Frangetta, occhiale tondo, un
po' Agnès Varda, eccola qua. Nonostante i 70
anni che compirà a luglio, è chiaramente un
folletto senza età. E non sembra nemmeno pericolosa.
La casa intanto: questo enorme loft che dà
su un boschetto di bonsai è il regno suo e del
marito Italo Rota, in mezzo a gatti veri e animaletti di gomma, acquari giganti che ribollono, statuette di Mao e madonnine d'acqua santa. "Era l'ex galleria di Massimo De Carlo, e
dove sta seduto lei, dietro, il Cattelàn - pronuncia tronca - l'aveva scocciato alla parete".
Celebre opera del Cattelàn, il gallerista che
per poco non ci rimane, scocciato. "Lassù, sul
soppalco, invece, il mio studio, tutto aperto,
perché mi piace tener d'occhio tutto quel che
succede. Qua una piccola terma, un Vals casalingo", rimando alle origini svizzere, e poi gli
animaletti del marito: l'archistar è assente, in
trasferta a Dubai per l'Expo.
Palli ha appena pubblicato uno strano oggetto, un piccolo Dizionario teatrale per
Quodlibet insieme alla Naba che è l'accademia milanese dove insegna. Sembra uno di
quei manuali Hoepli di una volta che ti insegnavano qualche ramo dello scibile pratico.
Solo che traduce il teatro, dall'Italiano in inglese, russo, cinese, francese. Con tutte le sue
terminologie. Come le è venuta in mente l'idea
di un dizionario? "Perché io da giovane avevo
dei dizionarietti francesi per tutte queste parole che cambiano in ogni lingua nel teatro e
non si capiva niente. Solo che non esistono più
e così ho deciso di farne uno io".
Parole come "chiavarda, tirone, brocchetta,
burlone". Ma che è il burlone? "E' quello per
fare le onde. Infatti, in francese, colonne de
mer. In tedesco, wasserwalzen. Poi ci sono anche delle parole che si dicono solo alla Scala,
sarebbe servito un milanese-italiano. Per
esempio: la bellini. `Su con quelle bellini',
sentivo dire le prime volte. Le bellini sono dei
praticabili di legno allungabili". Eh, ma che è
un praticabile? "Sono le traverse, le piattaforme, su cui salgono attori e macchinisti".
La parte più divertente del dizionario è
quella sulle scaramanzie. "In Italia si sa che
non si può usare il viola, perché era il colore
della Quaresima, quando gli spettacoli erano
vietati e i teatranti morivano di fame. E non si
fanno mai ovviamente gli auguri ma si dice
`merda merda', che è così anche in francese,
perché più merda c'era sotto i portici dei teatri più carrozze erano passate e quindi più
pubblico. In Germania si dice Toi Toi: la prima
sillaba di Teufel, diavolo, che però porta bene,
si mette anche sull'albero di Natale. In Russia
quando si inaugura un teatro si porta invece
un gatto".
Il gatto però se attraversa il palco durante
lo spettacolo porta male (e di gatti, in questa
casa, eccone due, che ronfano in una cesta). È
gattara? "Io di mio sarei più per i cani, il gattaro è mio marito, che infatti ha costruito tutta
questa casa a prova di felino. Tutte le porte
hanno un angoletto mancante per il loro passaggio". Ma adesso i buchi son tappati, poi capiremo perché. Intanto, colori: "il verde porta
male in Francia perché si dice che Molière
fosse vestito di questo colore la sera del suo
ultimo spettacolo, il Malato immaginario il 17
febbraio 1763, dopo il quale prontamente morì. Il giallo - più curioso - è vietato in Spagna
perché è giallo l'interno del mantello del torero, e dunque sarebbe l'ultima cosa che vede il
toro prima di morire". Poi c'è la corda, che si
può nominare in italiano ma mai assolutamente in inglese o in francese: "I teatranti infatti dal Seicento erano marinai che d'inverno
stavano in terraferma e dovevano sbarcare il
lunario. Molti dei termini teatrali derivano
dalla marina. E corda, corde o rope, significava
impiccagione".
Anche lei è scaramantica, dice, "lo sono tutti". Anche Ronconi, eterea divinità barbuta,
creatore di spettacoli lunghissimi e architettonici. "Beh, sì, nonostante fosse uno impassibile, che notoriamente non si scomponeva
mai. E però uno dei primi lavori che ho fatto
con lui, sapendo il suo perfezionismo, volevo
fare la perfettina anche io. Serviva uno specchio e io portai un vero specchio da bagno, e
lui inorridì".
In altri casi, invece, materiali sempre reali,
come nell'Ignarabimus di Arno Holz, leggendario spettacolo degli anni Ottanta, "in cui
c'erano un vero muretto di mattoni, e vere
strade di marmo e vero asfalto, perché lui voleva che il fruscio del vestito della protagonista, Marisa, fosse diverso, che strofinasse
sull'uno o sull'altro". So che chiamava Marisa
anche lei, nei momenti di magra. "Marisa
quando era arrabbiato, Marghe quando era in
buone: ma non è che si arrabbiasse, è che si
incupiva se gli sembrava di non riuscire a trasmetterti la sua idea".
"Lui cominciava dallo spazio e poi arrivava
alla regia. Pensava in pianta, e poi sopra costruiva lo spettacolo". Partendo spesso da suggestioni tipo sciarade. "Non era facile capire
cosa volesse. Ci sono registi che ti dicono benissimo quello che vogliono, magari anche ti
danno una fotografia, la Cavani era così. Ronconi no, buttava lì delle frasi tipo: `Siamo in un
cinema parrocchiale degli anni Cinquanta',
per i Dialoghi delle carmelitane di Bernanos.
Oppure: per Il caso Makropulos l'indicazione
era: `in ogni pensione del mondo c'è una passatoia rossa'".
"O ancora: per la Lucia di Lammermoor, l'ultimo spettacolo che abbiam fatto insieme, opera ambientata in Scozia in un giardino, io arrivo preparatissima sui giardini, e lui subito si
innervosisce. `Ma che giardino e giardino!
Dev'essere un concentrazionario'. E dietro,
tutta la corte del Maestro: ah, certo, un concentrazionario! Sicuro! Ma nessuno, me compresa, aveva ben capito cosa intendesse. Poi capimmo che voleva uno speciale campo di concentramento. Per un'Arianna a Nasso, c'era il
tema dell'isola, lei è una prigioniera su un'isola. Lui arrivò e disse: dev'essere ovviamente
Jackie Kennedy a Skorpios. Così per mesi io
vado con la mia assistente alla biblioteca Sormani, non c'era Internet all'epoca, e ci mettiamo a studiare tutti i rotocalchi, Stop, Novella
2000, Gente".
Quindi anche Ronconi non era ossessionato
solo dal'“alto”. "No, per niente. Leggeva di
tutto, da Vanity Fair a testi di economia. E poi
era un uomo che sapeva riconoscere le intelligenze. Una volta c'era il presidente di Artemide, Gismondi, che s'era messo in testa di fargli
disegnare una lampada. Timidamente li facemmo incontrare. Rimasero chiusi dentro
per un'ora e mezza. Alla fine trovammo Ronconi che gli leggeva Ossi di seppia". Però
l'Arianna a Nasso kennediana non andò mai in
porto. "No, alla fine lui cambiò idea perché
l'isola di Skorpios in quelle foto sembrava solo
un ammasso di sassi. Quindi facemmo invece
un'isola ispirata a Böcklin. `Bene, e adesso che
abbiamo l'isola, che le facciamo fare?', dice il
Maestro. Finì con un'isola rotante, sotto c'erano tipo trentacinque motori elettrici che la dovevano muovere lentissimamente, perché il
fatto che girasse lo si doveva percepire solo
dopo un po'. Certo, molti spettacoli oggi non si
potrebbero più fare, ma non per soldi, anche
per i rischi, per la sicurezza".
Io mi ricordo ancora l'Incredibile Pasticciaccio fatto a Roma all'Argentina coi palazzoni che si squadernano sugli attori. "Oh, beh,
ma non abbiamo mica inventato niente. È solo
una ripresa delle macchine teatrali seicentesche", taglia corto Palli, che, si è capito, coltiva
il gusto dell'asciuttezza, oltre a quello della
ricerca, affinato in anni di enigmi ronconiani,
e che la occupa di notte, nei meandri dell'Internet. "Sono molto nerd", sussurra, abbassando gli occhi, come una colpa, chissà però quanto si diverte, nel suo antro.
"Sa cosa piaceva molto a Ronconi? La moda. Anche a me", dice, e mi porta nel guardaroba sospeso che farebbe invidia alla Ferragni,
"ma Ronconi era un super esperto: lui normalmente viaggiava sempre con un minuscolo valigino, ma quando andavamo a Tokyo si portava tre valige. E sapeva tutto: ah, quello è un
Miyake, quello è un Yamamoto".
"Tokyo mi piace molto", dice Palli, "e anche
Milano". "Mi piace il cemento". Come il cemento? "Beh, io sono nata in campagna, in
Svizzera, con le mucche, mio padre mi portava
a vedere il fiume, per un po' ero pure convinta
di voler fare la veterinaria. Se sto in città è
perché voglio andare in giro, prendere un aperitivo, vedere due negozi, un museo. O andare
da McDonald's, che adoro. Non è che voglio
guardare gli alberi. Se voglio guardare gli alberi vado in campagna. Poi tutta questa mania
di piantare alberi dappertutto in città... non è
mai stato dimostrato che servano a qualcosa".
Eh, però i suoi quasi colleghi architetti han
detto che bisogna andare tutti nei borghi.
"Mah, i borghi: io ho delle assistenti che stanno fuori Milano, prendono il treno per venire,
son mica tanto contente". Lei insegna anche
all'università della Svizzera Italiana. "Curiosamente, proprio nel palazzo dove sono nata.
In Ticino se eri cattolico partorivi alla clinica
S. Anna, se eri laico alla maternità cantonale
di Mendrisio. Che poi è diventata università".
Famiglia? "Di Pura, dove stava anche Benedetti Michelangeli. Parente Natale Palli,
l'aviatore che pilotava l'aereo di D'Annunzio
nel volo su Vienna. Mio papà, architetto, lavorava per il governo svizzero. E poi un nonno
insegnante, e una zia pure insegnante. Avevano messo su un doposcuola gratuito per i figli
degli italiani che emigravano in Svizzera".
Adesso insegna pure lei. "Beh, si, insegno
più che altro un mestiere", butta lì, senza tante
smancerie. Dicono che sia molto severa. "No.
Sono molto esigente. Se fai l'università sei un
privilegiato e devi lavorare. È come andare in
fabbrica. Non è che vieni lì a fare gli esami e
prendere la laurea. Nessuno nella vita ti farà
lavorare per la laurea, ma per quello che sai
fare. E poi noi non siamo mica artisti. È un
lavoro come un altro il nostro, è come un architetto, hai un committente, devi rispettare i
costi, non siamo mica i Cattelàn. Se hai pensato un cornicione di quindici centimetri c'è
quello delle luci che ti dice, fallo di dieci che
ci devo mettere una luce". Eh però la Scala,
Ronconi, l'aristocrazia teatrale.
"Ma non c'è solo la Scala. C'è anche Amici".
Come Amici? "Il nostro compito è insegnare a
fare tutto. Io per esempio ho una passione per
l'Opera più che per la prosa, ma insegniamo
anche a fare una vetrina per la Rinascente".
Certo saper fare l'Opera aiuta, "Se uno è in
grado di progettare uno spazio di venti metri per venti, la dimensione tipo del palco,
che cambia per cinque atti, che dentro ci
stanno cinquecento persone tra coro, attori
e orchestra, poi può fare qualunque cosa.
Una mia allieva è andata a X Factor, e sono
ben contenta".
Anche lei ha fatto tante cose. "Non è che da
piccola volevo fare la scenografa, no. Disegnavo abbastanza bene e son andata all'Accademia. Ma frequentavo di più la classe di scultura, con Alik Cavaliere, che poi mi ha detto: è
ora che ti trovi un lavoro serio, lo scultore non
è un lavoro da donne". Finisce da Gae Aulenti,
che sta realizzando il museo d'Orsay. Sarà stata felice. Ride. "Mah, insomma. Facevo la colorista, come si diceva una volta, prima che inventassero il render. Coloravo i progetti. Ero
un render umano".
E poi Parigi. Un sogno. "Ma io l'ho sempre
odiata Parigi. Son sporchi. La baguette mi fa
schifo. La moquette al cesso mi fa schifo. No,
Parigi proprio no. E' un posto così finto. Tutti
mi dicono, ah, che bella, Parigi, io l'ho sempre
detestata. Così romantica. Così Disneyland.
Poi così razzisti con gli italiani. Io non litigo
mai ma lì ho fatto certe litigate. Un anno stavamo facendo la Fedra, e dovevo telefonare a
Ronconi che stava in hotel ad Atene, allora vado alla Borsa dove avevano tutti gli elenchi telefonici del mondo, prendo quello di Atene ma qualcuno aveva strappato la pagina. Vado dall'addetta, faccio una timida rimostranza, e
quella: ah, les italiens! Ils sont toujours polemiques! Ma quale italiana, io son svizzera, e in
Svizzera non le strappiamo le pagine!".
A Parigi vive una specie di luna di miele col
marito, che stava facendo la gare d'Orsay insieme alla Aulenti. "Ma per un po' ci molliamo, così finalmente posso tornare a Milano.
Tutti dicono che mi ha mollato lui, ma non è
mica vero, son scappata io". "Ma sa invece
qual è una delle cose più divertenti che ho fatto? La mostra per i vent'anni di Striscia la Notizia". Ma come! Non è possibile. Sì, alla Triennale. Io e la mia assistente eravamo molto
scettiche di incontrare Antonio Ricci, poi siamo diventati amici". "La strega confederata",
la chiama lui.
"Eravamo tutti e due sospettosissimi, lui di
incontrare una parruccona scenografa col sopracciglio alzato, lei di incontrare un cialtrone televisivo, non so. Comunque, un trionfo:
cinquantamila visitatori. Una coda che arrivava da Cadorna. Ricci è molto colto, è un grande
collezionista, ha lo stesso tipo di intelligenza
di Ronconi". Ma qui i cavalli nitriscono, tipo
Frankenstein Junior. "A un certo punto ha pure presentato un mio libro a Striscia. La mia
signora delle pulizie ha fatto una foto e me l'ha
mandata, io la giro a (e nomina una signora
milanese importantissima) e quella mi dice:
ma la tua colf è bravissima col photoshop!".
Intanto suona il telefono e parte a tutto volume la suoneria di "Heidi". "Heidi, Heidi, ti
sorridono i montiiii". È il marito da Dubai.
Riattacca. Parliamo un po' di teatro, di coscienza civile, di urgenza? Macché. "Il vero
grosso problema", dice lei, "è di chi magari fa
vari lavori, gli eventi, la moda, e anche il teatro. E adesso sta a casa". "Spero che si ricominci presto". Però senza drammi. "Il Covid è
stato anche un modo per raccontare l'Opera in
un modo diverso. Per esempio Martone, col
suo Barbiere e la sua Traviata televisivi, è stato bravo, son molto belli. Magari hanno fatto
avvicinare al teatro un pubblico nuovo. E poi
qualcosa cambierà, sì, i teatri stanno cercando
opere con meno coro, meno attori".
Su una cesta intanto due gatte ronfano. "Il
primo gatto che è arrivato era uno scottish regalato da Ronconi. Ma quando è morto, la moglie e la figlia che vede qui erano disperate,
non mangiavano più, allora la mia veterinaria
mi ha detto: ne prenda un altro. Insomma abbiamo preso quest'altro gatto. Lui è gigante,
un bisonte, e loro due lo odiano. Abbiamo dovuto transennare tutti i buchi: però queste due
hanno ritrovato un nuovo motivo per alzarsi la
mattina, tipo Olindo e Rosa: fare la guerra al
nuovo gatto. Sono rinate"