Recensioni / Parole da vedere

«Oggi martedì 30 ottobre 1984. Sto scrivendo queste pagine dopo aver riflettuto nei giorni scorsi, per cercare di spiegare l'opera fotografica, per trovare una definizione». Così comincia un dattiloscritto di Luigi Ghirri. Ha quarantun anni e da poco più di dieci anni si dedica a questo mestiere, dopo che ha lasciato il lavoro di geometra. Non ha frequentato nessuna scuola o corso, proviene da una famiglia modesta della campagna emiliana; la sua cultura visiva se l'è formata sui libri d'arte trovati in casa, sugli atlanti geografici e attraverso uno zio pittore. Neppure come scrittore ha una pratica consolidata, eppure in occasioni d'esposizioni e pubblicazioni scrive. Sono note, presentazioni, riflessioni, pagine per amici artisti, fogli di viaggio per giornali e riviste, un materiale che va pian piano accumulandosi. Poi una brutta mattina di febbraio del 1992 non si sveglia più. Cinque anni dopo Paolo Costantini e Giovanni Chiaromonte raccolgono in un volume quei dattiloscritti con un titolo tratto da una sua frase: Niente di antico sotto il sole. Ventiquattro anni dopo il libro torna a uscire presso Quodlibet con una prefazione di Francesco Zanot.
Luigi Ghirri nel frattempo è diventato uno dei più famosi fotografi italiani della seconda metà del Novecento. Non sono molti tra loro quelli che si sono interrogati sul proprio mestiere. Ugo Mulas, per esempio, sì; come Ghirri è un autodidatta. Quando l'ex geometra esordisce con una mostra in un albergo modenese sono già cominciati gli anni Settanta. La fotografia italiana s'è parzialmente affrancata dai suoi inizi neorealisti, ed è coinvolta dagli avvenimenti sociali del periodo; insegue un'idea di "realtà" con cocciuta testardaggine, seppure con qualche eccezione. Ghirri sbuca dal nulla e propone un'idea di fotografia che collega la realtà all'immaginazione. Di più: il pensiero all'immagine e l'immagine al pensiero. C'è stata l'esperienza dell'arte concettuale, con cui è venuto a contatto attraverso i giovani artisti modenesi, e c'è la consapevolezza che qualcosa di profondo è accaduto dopo gli anni Sessanta nella società italiana. Siamo entrati in quello che Ghirri chiama il Regno dell'analogo. Pubblicando Kodachrome ne1 1979 scrive che oramai viviamo nella moltiplicazione degli analoghi: «la fotografia, analogo della realtà, la fotografia mia ultimo analogo dell'analogo». Per lui non è né uno scandalo né una condanna, poiché «la realtà in larga misura si va trasformando sempre più in una colossale fotografia e il fotomontaggio è già avvenuto: è nel mondo reale». A differenza di tanti teorici, per Ghirri la realtà non è persa, bensì riguadagnata in modo ancor più concreto e reale.
Tra Ghirri che fotografa i cartelloni pubblicitari sui muri intorno a casa sua e Ghirri che fissa un viottolo sperduto nella campagna emiliana, non c'è alcuna differenza. Tutto è, come scrive, unione di realtà e immaginazione. La fotografia non è per lui un esercizio estetico, scrive, bensì un linguaggio «per scoprire, conoscere, rappresentare, capire la realtà senza paralizzanti ossessioni estetico-formali, perché nessun mondo è da nascondere e da rimuovere». Il 1979 è per lui un anno magico dal punto di vista delle fotografie che scatta e dei testi che scrive. L'Italia è entrata in uno dei suoi momenti più oscuri: Moro ucciso l'anno prima, il terrorismo di destra e di sinistra attivissimo, lo scontro sociale durissimo. Eppure Ghirri è come se avesse messo la testa oltre il cielo di piombo dell'epoca bucandone la densa calotta. Nelle pagine che batte a macchina ha messo a fuoco che il problema non è quello del confronto o conflitto tra mondo interno e mondo esterno: non c'è nessuna distinzione, poiché tutto è all'esterno, un esterno che continua a osservare e ritrarre. In Identikit fotografa le file dei volumi della sua biblioteca personale. Non ha uno scopo narcisistico; vuole piuttosto far vedere «di essere già dentro il libro». La sua, come d'altronde tutte le visioni possibili, è «dentro alla storia delle immagini». E cosa sono le immagini se non una realtà e insieme una immaginazione?
Il banale quotidiano, non lo spaventa, anzi l'incuriosisce, come quando ritrae un portacenere con l'immagine del David di Michelangelo coperta di mozziconi e fiammiferi. Guarda a Walker Evans e a Ansel Adams, ammira un gioioso dilettante: Lartigue; legge Barthes, Borges, Calvino, ascolta Bob Dylan e frequenta Gianni Celati. Appena cominciato, il postmoderno è già finito. Il ritorno alla realtà non è per lui una forma di impegno, bensì un continuo stupore e meraviglia. In auto con un amico reduce dall'Africa, mentre si trovano dalle parti di Luzzara, racconta in Un cancello sul fiume, si sente dire che questi luoghi lo impauriscono più dell'Africa. Stupito da questa specie di panico e timore suscitato dai pioppeti e dai campi arati della pianura, sorride tra sé all'idea che il fascino dell'imprevisto si sia trasferito proprio lì e che l'avventura possa abitare tra la carreggiata e il ciglio della strada. Per lui è così.

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