ugo Ball (1886-1927), fondatore di quel
Cabaret Voltaire di Zurigo con il quale
s'inaugura la stagione dadaista, è tornato
alla ribalta nel nostro paese con la pubblicazione nel 2015 presso la casa editrice
Adelphi, di un suo corposo volume (Cristianesimo bizantino. Vite di tre santi, pp. 316)
dedicato ai tre santi bizantini Giovanni Climaco, Dionigi IAreopagita, Simeone Stilita;
libro di cui scrisse Herman Hesse: «L'opera
di Ball è pervasa dalla religiosità che anima
l'innocente scritto di un agiografo, ma al
tempo stesso da una spiritualità lucida,
acuta, che spesso tende quasi all'ironia.
Un'aria chiara e tersa spira intorno alle figure che egli descrive con misura, fedeltà,
quasi in maniera impersonale e aleggia
un'atmosfera di purezza, come nelle opere
dell'Alto medioevo».
Un «ritorno all'ordine», come recita la
seconda di copertina dell'edizione italiana?
Forse non del tutto, come ci aiuta a comprendere il contenuto dell'ultima fatica editoriale di Gabriele Guerra, dove l'autore,
docente di Letteratura tedesca all'Università La Sapienza di Roma, approfondisce in
Hugo Ball quei lineamenti teologico-politici alternativi già esaminati in Walter Benjamin nella raccolta di saggi del volume precedente, curato con Tamara Tagliacozzo, Felicità e tramonto. Sul Frammento teologicopolitico di Walter Benjamin (Quodlibet,
2019). Del resto, come ci ricorda l'autore,
Benjamin e Ball ebbero comuni alcuni anni
svizzeri, quando una piccola ma significativa colonia di artisti e pensatori tedeschi, fra
cui Ernst Bloch, Hermann Hesse e Gershom
Scholem si trovavano lì per sfuggire al servizio militare.
Gli intenti dell'opera sono dichiarati in
apertura di volume: «Lo scopo di questa
analisi — che non vuole essere una ricognizione sistematica, per linee biografiche o
tematiche, dell'intero itinerario intellettuale di Hugo Ball — è quello di ripercorrere in
maniera sintetica ma approfondita alcune
stazioni di quella parabola, alla luce di due
elementi concettuali tra loro intrecciati:
l'attitudine balliana alla dissidenza e la sua
prestazione specificamente teologico-politica». Questo secondo elemento concettuale è subito specificato in nota come un ribaltamento di quello di Carl Schmitt: «In
questo studio opera cioè un altro concetto
di teologia politica accanto a quello schmíttiano: un concetto orientato all'idea di"fine"
della teologia politica, cioè volto a esaurirne ogni portata storica, teologica, politica
in direzione di un suo"sfondamento" (all'ingrosso, secondo la prospettiva che negli
stessi anni della Teologia politica veniva
portata avanti da Walter Benjamin)».
Hugo Ball ha nel corso della sua vita accostato le tre dimensioni dell'arte, della politica e della religione, ma tali dimensioni,
secondo Guerra, non vanno interpretate,
come hanno fatto molti studiosi, come altrettante fasi della vita, bensì come intrecciate in ogni momento del suo itinerario intellettuale, sia pure scandito da precise realizzazioni (Flametti, il Cabaret Voltaire, la
Critica dell'intellettuale tedesco e il Cristianesimo bizantino).
Se questo è vero, l'autore ha buon gioco nel mostrarci il «dadaismo mistico» di
Ball proprio nel cuore del suo «cattolicesimo integrale», ad esempio quando, in una
nota di diario non pubblicata, scrive che lo
scopo di un partito cattolico moderno deve
essere quello di mobilitare politicamente
gli ordini monastici con lo scopo di pretendere uno «stato di Dio»! Forse, dopo di lui, lo
avrebbe capito Giorgio La Pira, il «sindaco
santo» di Firenze. E ancor più, prima di lui, lo
avrebbe capito il grande scrittore russo
Nikolaj SemènoviE Leskov, per il quale l'autentico depositario della purezza originaria
del «cristianesimo integrale» è il «giusto» e
non già i rappresentanti più autorevoli della Chiesa istituzionale.
Del resto Guerra stesso non manca di
segnalare la relazione di Ball con il mondo
russo pre-rivoluzionario, dove la mistica di
Pavel Florenskij s'intrecciava con l'avanguardia di Velemir Chlebnikov e altri ancora, il mondo delle icone con quello degli
esperimenti di lingua zaum ocon la nascita
dell'astrattismo.
L'intreccio fra arte, politica e religione
appare come un costante basso continuo,
come quando Ball scrive in una delle pagine più famose di Critica dell'intellettuale
tedesco, opera uscita nel 1918 anche come frutto delle sue attività come dadaista
sulle scene del Cabaret Voltaire: «Crediamo a Don Chiscíotte e alla più fantastica
delle vite. Crediamo che le catene cadranno e non ci saranno più galere (...) Non crediamo alla Chiesa visibile, ma a una invisibile. Chi vuole combattere in essa, ne fa
parte. Crediamo a una santa rivoluzione
cristiana e a una unio mystica di un mondo
affrancato. Crediamo alla fratellanza sancita da un bacio fra uomo, animale e pianta,
alla terra su cui siamo e al sole che vi risplende. Crediamo a un giubilo infinito
dell'umanità».
Parole che consuonano con quel cristianesimo sempre meno antropocentrico
che con la lettera enciclica Laudato si' di papa Francesco ha fatto il suo ingresso definitivo nel mondo cattolico, dopo secoli di distanza dalle Laudes creaturarum di un altro
Francesco (quello d'Assisi).
Non solo, ma l'affermazione di «libertà»
con la quale, nello stesso anno (1918), si
conclude il primo manifesto Dada, firmato
da Tristan Tzara, in Ball viene a coincidere
con «Dio» stesso: «Un miracolo sarebbe l'incarnazione compiuta dell'Eterno in figura
temporale. Non lo è stato e non lo sarà mai.
Dio e la libertà sono tutt'uno. Il regno di Dio
in terra è sacrilegio. La Chiesa visibile un sacrilegio. Rappresentante di Dio infallibile un
sacrilegio. La teocrazia, un potere insediato
da Dio, è il sacrilegio di tutti i sacrilegi».
Come ben ci spiega Guerra, a un potere
che abbia pretese immediatamente divine
Ball oppone «un'altra teocrazia, fondata sul
dominio del puro spirito, e dunque sulla rivendicazione della sua assoluta libertà:
un'altra teocrazia che, per così dire, contesta il kratos terreno di Dio rivendicando per
lui il più assoluto di tutti i kratoi».
Dall'analisi condotta con assoluto rigore su tutti i testi balliani emerge così un
pensiero dal carattere antinomico, di non
facile comprensione, per il quale una definizione appropriata sembra essere quella
di «teocrazia mistico-anarchica», la stessa
che decenni dopo tornerà, in forme variate,
con un ex allievo di Gershom Scholem, Jacob Taubes, che, anche lui nel tentativo di
costruire un'alternativa alla teologia politica schmittiana, e riprendendo categorie
benjaminiane e blochiane, postulerà un'antitesi decisiva fra «teocrazia dall'alto» e «teocrazia dal basso».
Il volume si conclude con il capitolo intitolato «II cristianesimo bizantino come altra modernità mistica», con il quale torniamo all'interrogativo iniziale: un ritorno
all'ordine? Forse non del tutto, come ci aiuta a comprendere Guerra nel riportare le
parole decisive di Ball: «Se allora credevo a
una"Chiesa dell'intelligencija"su cui fondare ogni libertà e sacralità delle forze vitali,
ne sono convinto anche oggi. Ma ora vedo
questa Chiesa non più al di fuori di quei
dogmi e di quelle leggi, a cui una tradizione
antichissima dei popoli asserisce di credere;
non lí vedo più, i dogmi e le leggi, esterni a
quella tradizione pan-ecclesiale alla quale
risale il nostro più nobile patrimonio e i nostri beni migliori, l'unità della cultura, l'unità d'Europa, l'unità della morale».