La natura si dice in molti modi. Si può parlare della natura selvaggia, di quella natura che è l’assolutamente altro e il ‘fuori’ rispetto ai confini della civiltà, ma qui – dove non arrivano le parole – solo alcuni poeti e qualche filosofo si sono avventurati. C’è poi la natura come opposto della cultura o come contrario dello stato di diritto. Ma in questo caso, nonostante l’apparente esteriorità, bisogna ricordare che l’opposizione è una forma di relazione. Ciò vuol dire che in questo caso, senz’altro il più trattato, si ha a che fare con una forma di relazione mascherata da estraneità.
È proprio di questo particolare tipo di rapporto che si occupa L’istituzione della natura di Yan Thomas e Jacques Chiffoleau, un rapporto per il quale l’esclusione (della natura in questo caso) va di pari passo con una forma di inclusione. Il libro si divide in due parti: nella prima Thomas analizza il rapporto fra ius e natura nella Roma antica, nella seconda Chiffoleau osserva lo stesso rapporto nel diritto medievale, sullo sfondo della teologia cristiana che ne riconfigura completamente il senso rispetto alle credenze pagane.
In queste pagine dense si incontra una selezione di materiale documentario che, se da una parte corrobora l’ipotesi, sostenuta da pensatori come Benjamin, Adorno o Deleuze, della civiltà come meccanismo di «cattura» della natura (p. 26), dall’altra rende più comprensibile la loro prosecuzione da parte di filosofi come Giorgio Agamben o Jacques Derrida, che hanno fatto ampio uso proprio dei materiali di Yan Thomas.
Nonostante le differenze fra lo stesso Thomas e Chiffoleau, infatti, il tema che attraversa il libro è quello della natura come presupposto del diritto che viene utilizzato come sua giustificazione o supporto, in una narrazione funzionale all’istituzione del diritto stesso: un’istituzione che passa per una natura tanto estranea al diritto, quanto costante bersaglio delle sue attenzioni. È il tema classico dello ‘stato di natura’ che verrebbe prima e sarebbe il fondamento dello ‘stato di diritto’, e che il libro ben mostra come tema presente molto prima di Hobbes, configurandosi addirittura come un vero e proprio archetipo della nostra civiltà. Secondo tale immagine archetipica, il discorso sulla natura la fa oscillare fra il retaggio di una violenza e sopraffazione senza limiti e quello di una legge scritta da sempre e per sempre per una inviolabilità assoluta.
Esattamente come avviene per la sostanza prima nella metafisica aristotelica, siamo qui di fronte a una sorta di falso inizio o di passo falso con cui prende avvio il pensiero. Lo stato di natura corrisponde, in tale retorica, all’inizio dell’umanità che però deve essere abolito affinché essa sia veramente umana, esattamente come (ancora nella biologia odierna) la materia sarebbe la base della vita biologica, che però deve essere superata affinché essa sia veramente viva, e così via in una serie di superamenti che restano inspiegabili e, in fondo, metafisici.
Per quanto riguarda la civiltà romana, Yan Thomas evidenzia una sorta di elemento mistico nel diritto antico: la natura vi assume la posizione di fondamento sempre presupposto, ma in fin dei conti inafferrabile. La natura qui è in un certo senso il fuori del diritto, ma catturato, come un rivolto, una piega, o un invaginamento utilizzato per istituirsi e costituire in questo stesso andamento la soggettività che gli è propria. La natura romana è il pregiuridico con cui lo ius era in grado di tenersi in relazione, sia inglobandolo come situazione di fatto, sia, in determinati casi, lasciandolo essere nella sua autonoma normatività.
È per questo che i giuristi latini pensavano che «anche se gli schiavi non sono toccati dalla lettera della legge [non sono cittadini, né propriamente umani], la legge li raggiunge, ‘poiché la natura è comune’» (p. 22). Infatti, uno schiavo anche se non ha diritti e per la legge è un oggetto, è comunque tenuto a rispettare una ‘legge di natura’ come quella della pietà verso i genitori, che vale a maggior ragione per i cives su cui incombono anche apposite leggi. La natura è una specie di mare magnum che circonda il diritto e da cui questo trae forza ed estensione al di là dei propri confini. «Lungi dal fondare delle norme, la natura, secondo i giuristi del II e III secolo, prepara soltanto il terreno per estenderle al di fuori delle leggi. Lungi dal contribuire alla formulazione degli interdetti, essa è messa al servizio della loro estensione» (p. 22). Altre volte, invece, la legge civile ‘imita’ quella naturale, come nel caso della legislazione sull’adozione che permette quest’ultima solo se rivolta a giovani dell’età corrispondente per approssimazione a quella di ipotetici figli naturali. «Regimi contrastanti e purtuttavia solidali, in quanto entrambi contenuti nell’enclave all’interno della quale il diritto lascia sussistere una natura autonoma. In questo recinto pre-giuridico […] la natura prefigura le istituzioni pur essendone a sua volta definita» (p. 26).
Allo stesso tempo, però, nella mentalità romana «non c’è altra fonte del diritto che le leggi e i mores della città» (p. 23) che per certi versi sono concepiti come contra naturam. «Per i giuristi d’epoca imperiale, è senza dubbio la guerra a segnare la prima scissione produttrice di diritto» (p. 17) in quanto, stabilendo confini e proprietà, essa limita la libertà naturale e vi opera un ritaglio senza il quale non vi sarebbero né popoli né leggi. Per quanto ai giuristi moderni possa sembrare impensabile, per i latini il diritto nasce da un atto di conquista violenta in quanto oggetto del diritto è la proprietà e la proprietà nasce dall’appropriazione. Per lo stesso motivo diritto e schiavitù nascono insieme e sono connaturati: non c’è soggetto di diritto senza appropriazione.
Ancora una volta tale contrapposizione di diritto e natura non va intesa come un’estraneità assoluta: la civiltà romana credeva in una normatività naturale precedente quella civile da cui quest’ultima attinge la sua forza, ma da cui è anche minacciata. Gli oggetti dell’appropriazione come animali, territori o prigionieri, possono anche riguadagnare la loro libertà naturale e sfuggire ai diritti accampati dai proprietari: in tal caso (contrariamente a oggi) la proprietà si considerava estinta.
Tale convinzione deriva dal fatto che i romani credevano in un’arcaica[1] «età naturale» (p. 25), o «dell’oro», in cui «tutto era comune a tutti» (Ivi), la proprietà non esisteva e si poteva usare ogni cosa secondo le proprie forze. In tale età dell’oro, in cui il diritto ancora non esisteva, significativamente «la natura è destituita; isolata in un’inaccessibile anteriorità» (p. 24).
Come abbiamo detto, il diritto romano ingloba parzialmente tale natura pregiuridica riconoscendo delle res communes usabili da tutti, ma «prudentemente assegnat[e] alla sfera del diritto privato» (p. 24) e che, come res nullius, sono appropriabili da chiunque.
Il godimento delle res communes si distingue infine da quello del patrimonium populi, che pure su di esse si modella, per il fatto che questi beni originari non sono ancora caduti sotto il dominium di alcuno e, a questo titolo, possono essere – almeno per qualche tempo occupati. La loro qualità di res nullius è primaria: non è la conseguenza di un atto che la assegni agli déi della città o ai suoi cittadini (p. 28).
Riguardo alle res communes, enclave di una proprietà collettiva che si realizza nelle città sotto forma di demanio pubblico, i giuristi concepiscono un regime giuridico della natura completamente diverso, a cui corrisponde la sfera privata del diritto civile. Esso riguarda quelle res nullius originariamente autonome: gli animali selvaggi, assorbiti dal diritto al momento della loro prima cattura. [… ] Facendo dell’animale, prima sottratto a ogni diritto, una cosa sua, egli realizza il primo acquisto del diritto privato: l’atto con il quale, senza alcun riconoscimento sociale, si costituisce unilateralmente come soggetto di diritto. Nella teoria classica dei titoli di acquisto, si suppone che ogni bene sia già inserito nei circuiti della trasmissione e dello scambio […]. La primissima forma di dominio è inattingibile all’esperienza, se non addirittura al pensiero. Eccezionalmente, tuttavia, la cattura di un animale sembra lasciare una traccia, un vestigium a partire dal quale i giuritsti risalgono nel tempo per concepire questo possesso iniziale […] (p. 29).
Il meccanismo di cattura della natura (dei corpi) appare in questi passaggi in tutta la sua evidenza e produce per un attimo, nel centro del suo dispositivo, lo sfioramento di umani e animali, laddove si assiste alla nascita della proprietà nella forma schiavile per gli umani e cosale per gli animali.
Se schiavi si è per nascita o per sconfitta in guerra, gli «animali selvaggi […], fin dalla loro cattura, appartengono al soggetto che li addomestica. […] Al godimento indiviso delle cose comuni si contrappone il diritto esclusivo conferito dalla prima presa di possesso» (p. 26). «La cattura degli animali selvaggi (e quella degli altri uomini durante una guerra) è trattata come una sopravvivenza grazie alla quale il diritto può pensare un atto giuridicamente impossibile, ma necessario per pensare sé stesso» (p. 30). Nella casuistica, infatti, il soggetto di diritto viene definito occupans o capiens, e capere (prendere) determina in lungo e in largo la categoria di possessio (p. 31) cioè l’appropriazione delle cose che è la base del diritto romano. Senza proprietà non esiste né alcun soggetto né alcun diritto. «Nei testi giurisprudenziali, il titolo pro suo comprende infatti esclusivamente la cattura degli animali selvaggi e l’accessione dei terreni alluvionali» (p. 32). «Quando i giuristi mettono in scena, nelle loro combinazioni casuistiche, questa natura selvaggia soggetta alla sola appropriazione che si riferisce esclusivamente al ‘proprio’, è per formulare una libertà mediante la quale, finché essa non è addomesticata, viene messo in scacco l’esercizio del diritto umano» (p. 33).
Il meccanismo di cattura è confermato anche quando l’animale riesca a recuperare la sua libertà naturale e «riguadagnare il possesso di sé» (p. 34), evento col quale la proprietà si dissolve. È inutile rivendicare diritti di proprietà su un cavallo fuggito nella natura selvaggia e che sarebbe impossibile rimprendere, così come è insensato accampare diritti di proprietà su un terreno portato via da una mareggiata. «La natura opera delle restituzioni, annulla le situazioni giuridiche conquistate a sue spese, interrompe la continuità dei possessi che, secondo l’ordine del diritto, si perpetuano o si trasmettono senza discontinuità» (p. 35). La natura è il pregiuridico che circonda il diritto e con cui esso deve sempre fare i conti.
«Così la natura, nonostante la visione utopica che ne offrono le opere didattiche, si articola con estrema precisione, nella casuistica, sulle divisioni essenziali del diritto. In essa si inscrivono già la forma pubblica e quella privata della proprietà. […] La natura è un’immagine delle istituzioni, le quali però a loro volta, come vedremo, sono dette essere state forgiate a partire dalla natura» (p. 35).
Nonostante l’idea di una libertà naturale nel diritto romano non c’è alcuna condanna della schiavitù e l’ammissione della sua istituzione in sua «violazione» (p. 36) e contro natura non trova altresì alcuna condanna morale o politica. Allo stesso tempo si riconosce una natura pregiuridica nella quale, usciti dal diritto, si può rientrare per effetto di un atto politico o violento, come la liberazione di uno schiavo o la sua fuga all’estero (p. 37).
Ben prima del giusnaturalismo: «La libertà naturale è usata come artificio per produrre libertà istituzionale. […] Si finge di credere che il diritto ristabilisca casualmente un regime naturale che esso stesso ha fatto scomparire» (p. 38). In alcuni casi il «diritto naturale supplisce l’assenza del diritto legale» (p. 39). In fin dei conti, «Non c’è niente in questa natura che non sia istituzionale e giuridico» (p. 44), cioè che non sia sempre già incluso nella legge, anche se la minaccia del pre-giuridico della «natura destituita» era onnipresente. A questo punto il diritto romano si trovava di fronte a un bivio: muovere verso la rimozione della minaccia verso una teologia della natura più solida, oppure seguire l’idea di una «natura destituita», approfondendone l’«inaccessibile anteriorità» (p. 24), flettendo dal pre-giuridico al non giuridico.
Come abbiamo detto, Chiffoleau rivolge il suo sguardo ai grandi cambiamenti avvenuti nel medioevo. Nelle pagine precedenti già Thomas aveva distinto fra il mondo romano dei primi secoli e la tarda antichità, nella quale la cristianizzazione dell’Impero rappresenta un passaggio storico fondamentale. «Durante l’impero prevale, come è noto, il principio princeps legibus solutus» (p. 19, nota 12). Su questo sfondo la «legge naturale del cristianesimo tardo-antico trasferisce alla natura, essa stessa creata dal legislatore divino, gli interdetti che il diritto romano riconosceva alla sola legge umana. La posizione della natura è cambiata, poiché essa è creata da Dio allo stesso titolo con cui Egli ha istituito la Legge. Questa trasformazione radicale resta invisibile a quegli autori che continuano a credere alla prescrittività della natura nel diritto romano, vale a dire che, da bravi tomisti, applicano la retroattività della dogmatica cristiana al diritto pagano» (p. 23, nota 25).
Se il diritto pagano era sempre sull’orlo di disciogliersi in una natura impersonale e pregiuridica, la concezione cristiana della legge umana si ricalca sulla legge naturale che è a sua volta copia della legge divina. Qui, la figura di Dio come persona (figura eminentemente giuridica) chiude completamente il cerchio di un diritto che ormai non vede più nient’altro che se stesso. Nasce in questo contesto il problema dell’assoluto, del fuori-dalla-legge, che nella teologia cristiana o si appaia al Dio sovrano e legislatore o viene pericolosamente respinta nel non essere.
Il saggio di Chiffoleau si concentra sulla nozione di contro-natura nel diritto medievale, nozione che, come abbiamo visto, nel diritto romano aveva un ruolo completamente diverso. Nel «ricchissimo concetto di natura del Medioevo» (p. 49) avviene ciò che nel mondo pagano non era avvenuto: la sovrapposizione fra contra natura e nefas. Nell’antica Roma «la schiavitù è sì in origine costituita contra naturam» ma questo non comporta alcuna condanna né opposizione. Allo stesso modo, l’incesto è considerato nefas perché contrario «alla legge e ai mores» (p. 52) ma non contrario alla natura: «la natura dei giuristi, a Roma, […] è esclusivamente una finzione interna al diritto civile» (Ivi). «Per il giurista degli inizi dell’Impero, la Natura non è un referente esterno al diritto, ma piuttosto una sorta di istituzione modello su cui possono appoggiarsi ed edificarsi altre costruzioni istituzionali» (Ivi). «Gli attentati alla natura, o se si vuole i crimini contra naturam non appaiono in piena luce che nei grandi compendi giuridici del Basso Impero» (p. 53). È con l’epoca cristiana che «la necessaria conformità degli uomini alla natura serv[e] da criterio e da giustificazione alle decisioni imperiali» (Ivi).
La prospettiva della natura è estremamente calzante per comprendere come la teologia cristiana sia venuta in qualche modo incontro a un Impero che, sullo sfondo del pensiero pagano, appariva ancora troppo contingente. Nel pensiero cristiano si può osservare come «la teologia della Natura sia legata assai strettamente non solo a quella della Creazione, ma anche alla riflessione sulla Onnipotenza e sulla Volontà divina, e che in quella prospettiva il Creatore non possa evidentemente far nulla contro natura […]. Nel corso di tutto il Medioevo questo legame tra Natura e Onnipotenza resta fondamentale» (pp. 54-55).
La violazione delle leggi di natura, gli atti contra naturam, sono violazioni della volontà divina, oltre che dei suoi vicari terreni, che stanno fra loro come «la potenza assoluta e la potenza ordinata» (p. 56). Nella cultura medievale, dunque, contra naturam e nefas (si noti che fas è legato a fari: parlare) vengono a coincidere poiché il crimine è una flagrante violazione del diritto divino e umano, mentre nel pensiero pagano contra naturam era parzialmente il diritto stesso (come abbiamo provato a mostrare). Da questa sovrapposizione tutta medievale nasce la categoria di «nefandum» (p. 57) che, per motivi che vedremo, appare sempre legata ad atti sessuali, in particolare l’omosessualità e l’incesto. Spesso infatti ai nemici politici o religiosi come barbari, pagani (p. 59) e poi eretici, ebrei o infedeli (p. 61) sono attribuite sodomia e blasfemia in diversa misura.
Dal XII secolo tale definizione si rafforza fino a includere fra i crimini contra naturam anche i matrimoni misti, quelli contratti con musulmani o ebrei, che a vario titolo mettevano in discussione l’autorità politica o religiosa: «lottare contro i nemici della Cristianità, rinforzare l’unità di questo insieme teologico-politico fondamentale vuol dire sempre, nello spirito di quanti conducono la lotta, proteggere l’integrità e lo sviluppo naturale, quasi fisico, del corpo sociale nel suo complesso» (p. 65).
Ciò che accade è che «nella forma dell’allegoria che fa della Natura una padrona, una signora e persino una regina del mondo» (p. 66) si tenta di «reprimere tutti gli attacchi alla Natura creata da Dio o le violazioni delle leggi che la governano» (Ivi) e si mettono in luce gli «stretti legami tra Natura e Onnipotenza» (Ivi). Infatti, il delitto contra naturam è «una messa in questione diretta della sovranità divina […] uno ius naturale sconosciuto agli antichi» (p. 67). Nonostante una certa polisemia dell’espressione contra naturam, appare chiaro come, insieme all’appello alla monarchia universale, «il ricorso allo ius naturale […] abbia contribuito a limitare la potenza dei sovrani laici sottomettendola all’equità e alle esigenze della legge della Natura, una Natura sempre collegata alla potenza incommensurabile di Dio: […] questo ricorso costante alla Natura avrebbe permesso di abbozzare […] l’idea di diritti naturali immutabili, preannunciando per qualche verso i diritti dell’uomo contemporanei» (p. 69). È per questa corrispondenza fra ius naturale e potenza divina assoluta che l’idea di un diritto universale si rispecchia in quella di Impero, anche se nella modernità quest’ultimo assume la veste della sovranità.
Nella teologia cristiana la natura subisce così il peculiare sdoppiamento in «natura naturans e natura naturata» (p. 71). La prima corrisponde alla volontà divina che resta immutabile nella sua trascendenza al di là delle leggi naturali promanate, e la seconda corrisponde alle leggi naturali della fisica nella cui caducità il creatore imprime la propria volontà, senza però rovinare col mondo fisico. I pensatori dell’epoca «si domandano quindi in definitiva se la natura sia solamente il mezzo, il tramite cui Dio insegna agli uomini il diritto, o se piuttosto essa sia la fonte dello ius naturale» (Ivi). La natura in quanto legislatrice è, in un certo senso, Dio stesso, il quale però non decade con la decadenza delle sue immagini storiche (i Regni e le loro leggi), ma resta nella sua sempiterna trascendenza, capace però di imprimersi nella storia. In questo formidabile sistema binario, la Natura assume il ruolo di «referente assoluto, in una posizione sovrana, alla stregua di Dio stesso» (p. 72) e l’opus naturalis diviene in tal senso «l’opus Creatoris» (Ivi).
Su questo sfondo teologico che abbraccia leggi civili e naturali, gli atti contra naturam, minacciando la natura naturata, minacciano anche la natura naturars nella sua potenza (tanto ontologica che politica): «la Maestà divina in quanto tale» (p. 74), rappresentata dalla Chiesa e dallo Stato terreni (p. 77). La «majestas Naturae» (p. 78) è in tal senso «Dei auctoris vicaria» (p. 77) esattamente come il sovrano è vicarius Christi. Se l’antichità «non stabilisce alcun legame esplicito tra crimine contro natura e crimen Majestatis» (p. 78, nota 76) il medioevo opera questa identità perché l’omosessualità viola la natura «comune a uomini e bestie» (p. 80) la quale impone la riproduzione delle specie. «La sodomia non sarebbe dunque contraria in primo luogo alla natura razionale dell’uomo, ma soprattutto una violazione della sua natura animale» (Ivi).
Così mentre diverse eresie hanno spinto sulla coincidenza fra dio e natura, la teologia ha risposto ribadendo con tutti i mezzi possibili la loro separazione ed articolazione in un ordo naturae. «Tali crimini domandano una procedura giudiziaria in cui tutte le protezioni degli accusati possono essere fatte venire meno e la confessione gioca un ruolo centrale» (p. 81). Sebbene tali processi abbiamo portato al diritto processuale moderno, all’epoca furono largamente usati per cancellare tutto ciò che ostacolava il potere sovrano. Infatti, «fino alle riforme giudiziarie del XVII secolo è proprio questa procedura sottratta alle regole ordinarie a coronare tutto l’edificio del diritto criminale» (p. 93). La confessione serve perché la sovranità, nel crimine, è stata offesa nel suo rapporto intimo con l’essere. Nella teologia cristiana, infatti, tutto l’essere scaturisce dalla legislazione divina, e non preesiste alla sua volontà ordinatrice: tutti gli esseri esistono in virtù di una legge divina e ciò che non vi rientra semplicemente ricade nel non essere.
È per questo che una violazione della legge naturale obbliga a «ottenere attraverso la confessione una verità ‘intera’» (p. 82), il rischio è quello ontologico e politico di dover ammettere l’esistenza autonoma del male. Inoltre, nelle confessioni bisogna elencare tutti i particolari, anche i più scabrosi, per poter «imporre una concezione particolare della sovranità» (Ivi) che ha a che fare con la confessione cristiana, nata nel monachesimo, e che elabora una «pastorale della parola e del sacramento di penitenza» (p. 84). Per lo stesso motivo, nel XII secolo, vengono abolite le ordalie, un residuo pre-giuridico di origine germanica e indoeuropea, in quanto le si riteneva «contrarie alla natura», ovvero capaci di forzare la volontà divina. Nella confessio, «come probatio plenissima» (p. 85), «la regina delle prove» (p. 84), la tortura s’installa proprio nell’insufficienza della prova stessa, poiché se «un accusato nasconde delle attività indicibili, minaccia il cuore del potere» (p. 85).
Nei secoli successivi tali crimini vengono imputati spesso anche alle streghe, oltre che agli eretici. «Dietro la sovversione della natura c’è sempre, per i giudici laici come per gli inquisitori ecclesiastici, nei secoli XIV e XV più ancora che nell’epoca precedente, l’inquietante messa in causa di un potere sovrano [che] trasforma sempre il colpevole in nemico pubblico» (p. 90). Le streghe infatti sono sempre accusate di rapporti contro natura o incestuosi col demonio ed è indubbio che «la caccia alle streghe […] contribuisce in maniera potente […] all’istituzione della sovranità moderna» (p. 92) coi suoi dispositivi di soggettivazione.
«Un po’ ovunque infine, il campo degli atti contra naturam si allarga, esattamente come quello dei crimini contro la maestà» (p. 94).
«Così la ricerca ostinata dei ribelli e l’indagine della verità capace di far confessare cose indicibili sono evidentemente legate l’un l’altra e, nella ricerca degli atti contro natura tramite la procedura straordinaria […] è ancora e senza dubbio la maestà a essere difesa dai giudici. Ma è forse anche un modo nuovo di rapportarsi all’autorità che essi contribuiscono a installare al cuore di ogni soggetto» (p. 98).
Nella lettura di Chiffoleau, che riecheggia evidentemente Foucault e prelude ad Agamben, il maggiore lascito del medioevo sarebbe una sovranità in cui natura e maestà si fondono in una visione ubiqua della teologia: un’immagine che nella modernità verrà, poi, completamente interiorizzata e secolarizzata dal soggetto[2].
Se c’è qualcosa che accomuna i saggi di Thomas e Chiffoleau è la descrizione di una natura captiva, crudele sia in quanto violenza insensata che in quanto implacabile legislatrice, ma anche la coscienza che tale è la sua immagine catturata dal diritto e tramutata in suo presupposto. Allo stesso tempo la natura diviene il «referente assoluto, in una posizione sovrana, alla stregua di Dio» (p. 72). In questo dispositivo doppio la natura si trova nella posizione della nuda vita descritta da Giorgio Agamben, cioè di una vita naturale sottoposta dal diritto a una forclusione, cioè a una inclusione nella sola forma dell’esclusione. La nuda vita, infatti, non entra propriamente nel diritto ma ne resta sulla soglia, in una posizione ambivalente, né dentro né fuori dalla legge. Anche la nuda vita dunque, come la natura descritta da Thomas e Chiffoleau, si trova nella medesima posizione, anche se lato opposto, del sovrano il quale è anch’egli allo stesso tempo dentro e fuori dalla legge.
In altre parole ‘vita’ e ‘natura’ non sono concetti con un contenuto proprio, ma soglie di politicizzazione che stabiliscono operativamente il confine fra il dentro e il fuori attraverso soglie e fagocitazioni: «la natura e la vita naturale degli esseri umani non entrano mai come tali nel diritto, ma restano separati da questo e funzionano soltanto come un presupposto fittizio per una determinata situazione giuridica»[3].
Come per la nuda vita, però, c’è da chiedersi se questa esteriorità della natura rispetto al diritto, questo abbandono, possa essere pensato in modo puro e assoluto e se questo possa aprire la strada a un pensiero e una politica che conducano alla disattivazione dei dispositivi sovrani. Se ciò è possibile forse è proprio nella direzione di quella «natura destituita» cui Thomas concede solo un rapido cenno, e di cui, invece, sarebbe urgente affrontare la questione della «inaccessibile anteriorità» (p. 24) chiamando in causa la presunta esteriorità della natura al linguaggio, cioè la sua ineffabilità e indicibilità, che forse solo una certa conoscenza mistica ha osato guardare in volto.
Contro il paradosso di voler riconoscere la natura come soggetto di diritto (p. 101, nota 132, e Michele Spanò, p.106), che sembra estendere il processo di cattura della natura, bisogna forse muovere – come propone Agamben – verso un pensiero della coincidenza fra vita naturale e vita politica[4], cioè, in tutt’altro registro, tentando di far coincidere la natura come «referente assoluto» di cui parla Chiffoleau e quella come «referente assente»[5] di cui parla Carol J. Adams.
Tuttavia, al termine della lettura dei tre densi saggi che compongono questo volume, la domanda relativa alla possibilità dell’esistenza di una natura esterna al diritto sembra rimanere inevasa. Se i giuristi romani conoscevano un’età dell’oro in cui tutto era comune quale origine delle res communes (p. 25), per poi reinserire questa natura all’interno del diritto stesso, allo stesso tempo questa immagine di un’età esterna al diritto evoca quella di un’umanità ancestrale, precedente il diluvio e preolimpica, nota al Platone delle Leggi[6]: un’umanità senza legge perché innecessaria, essendo il nomos vissuto naturalmente nell’anima di ciascuno.
Così, se gli animali, ricordiamo con Thomas (p. 30), secondo il diritto romano riguadagnano la libertà se fuggiti nella foresta, ciò non poteva accadere per gli uomini: uno schiavo fuggitivo rimaneva sempre schiavo, semmai era passibile di una definizione giuridica peggiorativa, quella di fugitivus. E le cose non cambiano in epoca cristiana, dove le chiese sbarrarono le porte di fronte agli schiavi fuggitivi, rifiutando loro accoglienza e protezione. Qui il diritto sembra individuare la natura come l’aperto primigenio, nel quale l’animale può tornare, dato che non vi è mai uscito definitivamente, mentre l’uomo non può rientrarvi, perché mai entrato. Se possiamo, allora, individuare una natura esterna al diritto, questa sembra essere quella potenza generativa che i greci chiamavano physis, e i romani natura. Categoria di sostanza duttile, di cui i filosofi e la politica si sono appropriati: Platone[7] può definire ‘contro natura’ (para physin) un atto sessuale non riproduttivo perché questa natura da lui evocata è eminentemente politica. È la natura che coincide con lo statuto del maschio adulto, detentore dei pieni diritti nella polis, e quindi soggetto alla continenza (sophrosyne) nei piaceri. Allo stesso tempo questa physis sessuale diventa una mera categoria meccanica in Artemidoro[8], perché sono ‘contro natura’ solo le unioni sessuali fisicamente impossibili, come quella di un uomo con sé stesso, oppure con una divinità, o quella fra donne, dato che in questo contesto l’atto sessuale contemplato è solo quello penetrativo.
Purtuttavia, nel linguaggio comune, quello parlato nelle strade o nei mercati, o quello utilizzato da medici o indovini, physis – natura è termine che indica gli organi sessuali maschili e femminili[9]. Il termine physis qui porta nell’etimo il suo legame profondo con la ciclicità della vita: physis da phyo, ‘far crescere’, ‘far germogliare’, ‘accrescere’. Questa natura è inappropriabile per il diritto e la politica, in quanto è l’aperto metamorfico del ciclo vita-morte che questo termine intercetta nella sua matrice ancestrale. Si osserva in questa natura fisica, riproduttiva e generativa, una sfera che sfugge a qualsiasi presa politica, rimanendo ostinatamente esterna anche alla partizione greca fra zoé e bios, fra vita animale e vita sostanziata da una forma (politica, filosofica, produttiva ecc.). Ovvero, è solo fuori da una dicotomia fra natura e cultura, fra zoé e bios, fra città e paesaggio, frattura nella quale si inserisce il diritto, che può esistere una natura non giuridica. In questa natura dotata della potenza dell’aperto la natura dei giuristi romani trova la sua destituzione, natura di cui la stessa casuistica sentiva l’eco nell’immagine lontana di un’età dell’oro e dell’abbondanza condivisa.
Note:
1. Si veda in tal senso l’importante M. Ferrando, Il regno errante. L’Arcadia come paradigma politico, Vicenza 2018.
2. Si potrebbe ipotizzare che il caso italiano di uno Stato governamentale che ne racchiude in sé un altro, inattivo e vicario di Dio (Vaticano), non sarebbe in realtà un’eccentrico frutto del caso ma il modello stesso di ogni stato moderno.
3. G. Agamben, Il diritto e la vita, https://www.quodlibet.it/letture/giorgio-agamben-il-diritto-e-la-vita
4. G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014, p. 330.
5. C. J. Adams, Carne da macello. La politica sessuale della carne. Una teoria critica femminista vegetariana, trad. it. di M. Andreozzi e A. Zabonati, VandA edizioni, Milano, 2020, p 101.
6. 713b-714a.
7. Leggi, 636a-d; 836b; 838c-839a.
8. Libro dei sogni, I,78-80.
9. Cfr. J. Winkler, The Constraints of Desire. The Anthropology of Sex and Gender in Ancient Greece, Routledge, New-York, London 1990.