Che si trattasse di un territorio vasto e minato
lo si sapeva da tanto, anche se chi trafficava
con le cose dell'arte, fare e conoscere le spericolate vicende della creatività, fin dagli anni Sessanta si era molto affezionato alle acute vedute
di Gillo Dorlles quando, a proposito di kitsch,
faceva dottamente sapere dell'invadente presenza del cattivo gusto, della non-arte, della
sub-arte. Si trattava di robaccia che costituiva il
pièce de résistance del "pasto estetico della
borghesia trionfante". Ma l'acutezza dello studioso, saldamente piantata nei paludosi territori della creatività tutta, poteva mettere in bella
evidenza quanto ormai la distinzione tra le due
categorie contrapposte di arte/non arte si fosse
"fatta più problematica e spesso addirittura impossibile".
Nel corso degli anni molti di noi si erano
trovati quasi costretti ad approfondire l'argomento traguardandolo non soltanto dal limitato còté artistico, e lo si faceva tentando di misurarsi con i testi di Clement Greenberg, di
Hermann Broch, Harold Rosenberg e Jean
Baudrillard e di molti altri. Si cercavano in somma conferme alla convinzione ormai diffusa che la nostra vita sociale, la società tutta, la
creatività, il nostro agire persino, fosse permeato e modificato da una sorta di smorfia in
cui il kitsch - evidenza problematica - fosse
costantemente e fortemente presente.
Inafferrabile tiresia dal mutevole sembiante, il camaleontico kitsch viene ora sviscerato
nella recente, monumentale edizione della rivista Riga 41 - Quodlibet, opera magistralmente pensata, curata e prodotta da Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone.
Nell'editoriale si tenta di dare qualche definizione di questo bizzarro termine di origine
germanica, essendo ben consci dell'impossibilità di poterne compiutamente scovare davvero l'origine. Ecco allora ipotesi etimologiche
come "schizzo mal fatto, figura incompiuta, copia raffazzonata" o merce in svendita. Semplici indicazioni che traboccano in un universo
affine fatto di "arte degenerata, massificata,
inautentica, ripetitiva" o ancora `pseudo arte
a buon mercato, simulazione della bellezza,
esaltazione del sentimentalismo per via del
dilettantismo". Lo si accusa facilmente di volgarità e si arriva a definirlo "il male nelle arti"
e persino lo strumento complice delle tenaglie
insanguinate dei regimi totalitari.
Anche il filosofo Andrea Mecacci s'avventura sul difficile sentiero della ricerca di una definizione possibilmente univoca per sapere
cosa sia davvero il kitsch. Presto scopre che
l'arbitrario, infinito elenco che si può agevolmente stilare, sarà fatto di oggetti, temi, concetti paurosamente eterogenei eppure in
qualche modo intimamente connessi.
Mecacci pensa a cose come un orsetto di peluche che regge un cuore rosso, una popstar
che durante un concerto parla di fame nel
mondo o Miss America in lacrime che augura
all'universo la pace. In quest'infinito elenco di
valori contraffatti non potrà certo mancare
Graceland, residenza di Elvis a Memphis, Elton John che canta Candle in the wind al funerale di Lady Diana e poi l'infinita, incredibile selva di paccottiglia che ingolfa i gift shop
dei musei di tutto il mondo, zeppi per lo più di
cuscini gonfiabili con l'autoritratto di Van Gogh, colossei in plastica, scarabei egizi in alluminio brunito, pietà michelangiolesche luminose e intermittenti, Marilyn warholiane per
tappetini del mouse, particolari tragici della
Zattera della Medusa come decori per complementi d'arredo o articoli di cartoleria varia. Schegge di esempi senza fine, tragicomiche figure pizzicate senza fatica nell'universo
dell'inautenticità, nel paradiso del falso di cui
è profondamente permeata la nostra società al
punto da costringerci a chiedere se possa ancora aver senso limitarsi a parlare di cattivo
gusto, di falsificazione, degrado estetico o se
convenga gettare le armi e arrenderci senza
snobismi al trionfo planetario e senza limiti
della cultura middlebrow se non lowbrow.
Intanto l'avvento senza posa di new media e
il prevedibile prossimo futuro affollato di reti
e di istantanei sistemi di comunicazione hanno per sempre posto in ombra i noti e antichi
riti della comunicazione di massa, capace di
omologare gusti e tendenze su larga scala.
La facilità degli accessi a estetiche e culture laterali, marginali, ha scatenato processi di
ibridazione impensati in cui l'idea multiculturale esplode in forme spurie, antitetiche e stridenti, ma in grado di far nascere modi espressivi e di costume sui quali aleggia la pesante
ombra opaca del kitsch.
Per questo conviene ritornare su quei temi,
ripensare per capire se davvero il kitsch è "il
sintomo di arretramento culturale di un'intera civiltà, una negazione del progresso moderno" come voleva Adolf Loos, o se la conseguente "banalità dell'arte si muta nella banalità del male". Ci preme anche sapere se tutta la
contemporaneità nasconde la pervasiva totale
presenza del kitsch e delle categorie affini di
trash e camp, e questa consapevolezza ci può
avere fatalmente narcotizzati e privati della
possibilità di sapere e volere distinguere.
L'antologia di Quodlibet, nella sua vastità
documentale, rivela quanto l'argomento abbia
trafitto ambiti culturali e temporali, coinvolto
pensatori e artisti e abbia saputo mettere in
gioco teorie estetiche e atteggiamenti etici in
un vortice indefinibile di dubbi e certezze, posizioni radicali o facili scappatoie ironiche
per darsi ragione di una condizione indefinibile, pervasiva e perennemente mutevole.
Nel 1950 Hermann Broch scriveva: "Non
aspettatevi definizioni rigorose e nette. Filosofare è sempre un giocare di prestigio con le
nuvole e la filosofia estetica non sfugge a questa regola". Mecacci definisce Broch "il più
acerrimo nemico del kitsch". Egli imputa a
questa categoria che legava la responsabilità
di una lunga "ipocrisia culturale" - dalla fine
dell'Ottocento agli anni Trenta - con l'avvento
del Nazismo e rappresentava "un'infezione di
luoghi comuni che tutto appesta". Secondo
Broch l'orrore della pseudo-arte si scontra con
la forza e la sincerità delle ricerche d'avanguardia e allontanandosi dall'idea che il kitsch possa coinvolgere soltanto l'ambito del
cattivo gusto si spinge a una riflessione più radicale, che parla di un sistema di disvalori che
lo portano a dichiarare che "in arte il male è
rappresentato dal kitsch". E la "banalità del
gusto" porta inevitabilmente alla "banalità
del male" poiché, per l'autore, il kitsch non ha
da fare soltanto con i prodotti dell'estetica,
con l'arte, bensì con "un determinato comportamento nei confronti della vita". E' un passaggio radicale ma indispensabile che conduce
dal valore freddo degli oggetti a quello vivo
degli essere umani. La sostituzione della categoria etica con quella estetica "impone all'artista non un buon lavoro ma un bel lavoro",
fatto in genere di elementi che sono già stati, e
quindi sono quasi sempre nient'altro che cliché. Il kitsch vive insomma come sistema di
imitazione accontentandosi "di falsificare la
realtà finita del mondo". Per questo si tratta di
un atteggiamento culturale totalmente reazionario che non sa progettare il futuro e neppure
rileggere il passato.
All'inafferrabile e plastico concetto rappresentato da un fenomeno tanto vasto quanto
dissolto nel sociale, si sono dedicati uomini di
cultura sin dai primi anni del Novecento, ciascuno indagando aspetti, attitudini, ragioni
senza mai riuscire a fornire un ritratto esaustivo di una categoria che ci trova coinvolti non
solo come spettatori ma sovente come attori.
Lo scrittore Robert Walser mette in evidenza la figura del dilettante inventando il personaggio di Kutsch, fratello di Kitsch, un vero dilettante perché tuttologo. "Kutsch sa fare tutto
e vuole tutto, ma in concreto non combina nulla". E Walser odia i dilettanti, coloro che rappresentano l'approssimazione dell'arte degradata del Kitsch. Già Goethe scriveva: "Il dilettante non descriverà mai l'oggetto, ma sempre
e solo il sentimento dell'oggetto". Ne1 1910 Leo
Popper poteva asserire che "se l'arte è un'immagine delle cose, il kitsch è il suo confronto
più claudicante". Per Popper proprio coloro
che scambiano il kitsch con l'arte finiscono
per scambiare l'arte con la vita.
Fa notare Andrea Niecacci che anche Musil,
nel suo scritto del 1936 Magia Nera, ripete il
concetto in termini non dissimili: "Tutto ciò
che nella vita non è all'altezza dell'arte, è kitsch". Per Popper nasce il kitsch quando una
forma "smarrisce le esigenze da cui è nata".
Nasce "la tecnica o poetica dell'effetto" che sa
generare il kitsch, proprio quello che popola il
nostro orizzonte culturale.
Ancora Mecacci mette in luce, nel suo preioso volume sul tema, edito da Laterza, il pensiero di Walter Benjamin che anticipa nei suoi
Passages parigini l'intimo, sotterraneo filone
che lega il kitsch al moderno, e lo fa giocando
sul curioso rapporto tra l'arredamento ottocentesco e l'estetica surrealista, vale a dire
"dalla merce al sogno". Baudelaire era stato
lapidario quando seccamente rispondeva
"Prostituzione" alla domanda "Cos'è l'arte?".
Nient'altro che merce tra le merci. Nel kitsch,
l'arte è fatta per il consumo: "Arte con un pieno, assoluto e momentaneo carattere di consumo", quel consumo legato ai prodotti ormai industrializzati, "il tentativo di imporre forme
artistiche alla tecnica". Benjamin battezza la
categoria del kitsch onirico, cattivo gusto e sogno, borghesia ottocentesca e avanguardia
surrealista. È proprio nel sogno che si cerca di
rivivere il passato, si tenta di riappropriarsi di
"oggetti ormai dileguati". Kitsch come "ultima
maschera del banale".
Jean Baudrillard nel 1970 definisce il kitsch
"una delle categorie più importanti dell'oggetto moderno, oltre al gadget, ... l'equivalente
del eliché nel discorso". Si tratta di uno pseudo-oggetto, di una simulazione, uno stereotipo
risultato per lo più della moltiplicazione industriale, un soggetto in debito con altri registri
come "il passato, il neo, l'esotico, il folkloristico" sono presenze che manifestano la loro
estetica della simulazione, un'estetica
"dall'acculturazione che si manifesta in una
sottocultura dell'oggetto". Baudrillard parlerà più tardi di iperrealtà come una nuova versione della realtà, un'allucinante somiglianza
del reale a sé stesso, un simulacro. Siamo a
quella che Abraham Moles sociologo dell'Università di Strasburgo definisce come L'arte
della Felicità, un meccanismo culturale in
grado di concretizzare e pacificare i desideri
dell'uomo medio, "... un uomo che desidera diminuire la problematicità dell'esistenza per
cullarsi in una easy way of life, un modo di stare al mondo guardando il suo lato facile e banale, un'espressione del suo desiderio di evasione", come scrive Maddalena Mazzocut-Mis
a margine degli studi di Moles.
L'invadente e fantasmagorica sostanza nel
kitsch capace di nutrire esperienze visive, sistemi culturali, presenze estetiche, parrebbe
non contemplare ambiti decontaminati, indicare antidoti capaci di neutralizzarne la sua
valenza tossica, cheap, degradata. In realtà il critico statunitense Clement Greenberg, nel
suo noto saggio del 1939 dal titolo Avanguardia e Kitsch, meditando su Brecht si rende
conto della difficoltà quasi insormontabile di
produrre arte alta per un pubblico vasto e non
necessariamente acculturato. Egli si stupisce
di come una stessa civiltà possa produrre una
poesia di Eliot e le canzoni di Tin Pan Alley,
musica di livello davvero low. Si tratta in fondo di un conflitto di classe tra un'élite in decadenza e la nuova classe sociale, quella borghesia inurbata che non trova facilmente una cultura propria e volentieri si rifugia nel kitsch,
quell'arma perfetta di persuasione manifesta
dei regimi dittatoriali.
Si deve però dire che, fin dal secondo Dopoguerra, il volto ardente delle avanguardie storiche, fortemente impallidito, riusciva a soffocare l'ambizione di bruciarsi nel futuro e dissolversi in un flusso lento di edulcorazione di
qualsiasi pratica contro (salvo spuntati velleitarismi di natura varia) in rotta verso la celebrazione del consenso, come i generosi abbracci pop rivolti alla santificazione delle
merci.
Il sofferto conflitto che tribolava i pensieri
critici e le ambizioni politiche espresse da
Clement Greenberg, l'idea che una rigorosa
cultura d'avanguardia, quanto più radicale
possibile, fosse in grado di screditare alla radice la volgarità del kitsch dominante si è dissolta con la rapidità voluta dall'Artworld internazionale. Qualunquismo tardo postmoderno, identificazione di valore-prezzo, arte
fuori dal sociale e scomparsa delle teorie hanno favorito l'accesso degli stilemi Kitsch e del
loro volto bonario per la dozzinale felicità del
jet-set abbiente, dei parvenus planetari, delle
impositive ease d'asta, delle fiere transoceaniche, dei valori posticci dai moltissimi zeri.
Storicamente rivisitata l'arroganza della
presa del potere culturale planetario da parte
della cultura statunitense negli anni Cinquanta, riconosciuta la stretta dipendenza dell'arte
americana dalle avanguardie europee, confermata la leadership internazionale del mercato finanziario d'Oltreoceano, non ci resta
che constatare anche la presenza acritica e
consolatoria del kitsch artistico che furoreggia sul mercato, un'arte che non dà brividi.
Jeff Koons da par suo celebra l'apoteosi del
banale e le sue dichiarazioni a proposito dei
suoi lavori sono solo irritanti luoghi comuni.
"Sono una perfetta rappresentazione della
realizzabilità del sogno americano - divenuto
poi sogno occidentale e, infine, globale - della
possibilità per ciascuno di realizzarsi pienamente secondo le proprie capacità e i propri
meriti, di superare anche le barriere delle caste sociali, senza dover uscire dall'apparato
socio-politico così com'è, ma anzi essendo perfettamente integrato in esso". Il suo trionfante
kitsch disvela anche la vacuità del fare arte e
ha la medesima profondità che si riserva a tutti i gadget del lusso di fronte ai quali il gioco
scoperto del mercato e dell'investimento plaude cinico e sorride.