Recensioni / Una vita per la scena

erte storie si potrebbero raccontare lasciando parlare solo i luoghi, gli spazi, le pareti che abbiamo intorno. E poi quadri, foto, libri, come in questo caso. Gli scatti in bianco e nero, appesi ai muri o racchiusi in un album, e i volumi sistemati sugli scaffali che si allungano fino al soffitto, ci raccontano un pezzo di storia del nostro Paese così diverso da quello in cui siamo immersi oggi. Raccontano un mondo in cui si intrecciano passioni politiche e culturali, atmosfere e scampoli di ricordi, in una giostra di personaggi che non ci sono più, eppure così vivi: Giorgio Bassani, Luigi Diemoz, Carlo Aymonino, Alfredo Reichlin, Luca Ronconi... Ecco i "maestri" che hanno attraversato la vita di Roberta Canotto, oggi presidente e direttore organizzativo del Centro Teatrale Santacristina, un luogo in cui poter progettare, studiare, produrre in totale libertà, fondato con Luca Ronconi vent'anni fa. Dalla sua casa romana Canotto si chiede: «Dove abbiamo sbag iato? Come è potuta avvenire questa enorme frattura con le nuove generazioni?». Domande difficili a cui rispondere. «E faticoso tenere in piedi la memoria di figure come Luca Ronconi o Alfredo Reichlin, con il quale ho vissuto per più di 40 anni, fino alla sua scomparsa, nel 2017, ma è importante farlo per sapere da dove partire e individuare una nuova strada per il futuro».
Responsabilità, memoria, intelligenza. Sono queste le parole che ricorrono durante la chiacchierata con Roberta Canotto, nata a Padova 83 anni fa e arrivata a Roma nel 1959 per lavorare nella nuova redazione della casa editrice Feltrinelli. «Sono stati anni molto stimolanti per me. Luigi Diemoz, un comunista d'altri tempi, un grande intellettuale, uno dei pochi a conoscere il poeta Boris Pasternak, era stato trasferito da Milano a Roma. C'era Giorgio Bassani che aveva appena fatto pubblicare "Il Gattopardo" di Tomai di Lampedusa e la redazione era luogo di incontri di giovani scrittori e studiosi: Cesare Garboli, Enzo Siciliano e Vittorio Sermonti, per ricordare alcuni amici. Ad un certo punto Carlo Feltrinelli chiuse la redazione romana, allontanando prima Diemoz e poi Bassani, che divenne vicepresidente Rai e mi chiamò a lavorare con lui».
Era il 1964. Un anno dopo Bassa ni lasciò l'incarico, mentre Roberta Canotto proseguì la sua carriera in Rai, prima in radio, dove divenne anche direttrice di Rai Radio3, e poi dal 1977 in televisione, proprio quando stava nascendo Rai 2, diretta da Massimo Fichera, un socialista aperto e intelligente che veniva da Olivetti. Fu Roberta Canotto a convincere, tra l'altro, Carmelo Bene ad affrontare la televisione. «Radio 3 è stata una bellissima esperienza, i programmi erano di grande qualità ma un po' accademici. Allora non c'erano, per esempio, né la rubrica di cinema, né quella dedicata alle scienze o agli esteri. Quasi tutto era registrato. Con Sandro D'Amico realizzammo le "Interviste impossibili", dove gli scrittori con la propria voce erano i protagonisti. E poi c'era Franco Quadri. Con lui i rapporti, nel bene e nel male, non erano semplici, ma la sua passione e la conoscenza che aveva del teatro mi hanno aiutato per tutta la vita». Punti di riferimento importanti, nomi che hanno lasciato tracce, ciascuno nel proprio campo.
Prima ancora, però, c'è stato un professore di filosofia, antifascista, che ha aperto la strada di Roberta Canotto verso un percorso a cavallo fra letteratura e teatro. «Mio padre, scomparso quando avevo 14 anni, dirigeva un Consorzio di Bonifica, ma avrebbe voluto acquistare una libreria. Quando lui è morto sulla mia famiglia si è abbattuto un disastro economico. Col tempo ho cercato altri "padri". Tramite un circolo culturale di Padova che faceva riferimento a Danilo Dolci, sono stata anche a Cortile Cascino, quasi una baraccopoli nel centro di Palermo, dove ho incrociato Goffredo Fofi, che faceva il maestro, e Lucio Lombardo Radice, con la moglie. Sembravo una signorina inglese che piombava in India. Credo di essere stata poco utile, ma di aver imparato molto».
La scoperta di Roma, invece, Roberta Carlotto la deve principalmente al suo primo marito, l'architetto Carlo Aymonino, conosciuto proprio durante gli anni in cui lei lavorava in Feltrinelli. «Carlo era un uomo affascinante e molto intelligente. Era un comunista, una figura complessa, con un'etica sul lavoro che però non aveva nella vita. Ha avuto altre due mogli, oltre me, e i suoi figli sono davvero fratelli anche avendo avuto madri diverse. Silvia, mia figlia, è un'importante costumista. Ci sono anche i figli di Alfredo e non conto il numero dei nipoti che sono quasi una tribù. Avrei voluto, e qualche volta ci sono riuscita, avere una grande famiglia aperta, dove tutti possano convivere».
Risale al 1974 l'inizio della storia d'amore con Alfredo Reichlin, dirigente del Pci, allievo di Togliatti, direttore dell'Unità, e sposato in prime nozze con Luciana Castellina, con la quale ha avuto due figli, Pietro e Lucrezia. «Mi hanno sempre affascinato gli uomini creativi, perseguitati dal dubbio. Alfredo si interrogava sul destino del mondo, non è mai stato schematico, anche se è sempre stato comunista». Negli ultimi anni era deluso dalla politica? «Sì, ma non ha mai abbandonato il campo. Le discussioni politiche con gli amici erano di ampie vedute, non era certo quel ragionare che vediamo oggi in televisione. Bisogna volare alto, diceva sempre. Con gli anni intrecciò l'economia alla politica, era incuriosito dai mondi che non conosceva, un umanista che da ragazzo voleva fare il poeta».
Ma cosa abbiamo perso col tempo, perché siamo arrivati a questo punto?
«Giornalisti e politici oggi sono uguali. Mancano gli spazi, la capacità di ricostruire luoghi in cui poter discutere delle prospettive. Oggi è tutto semplificato al massimo. Nello stesso tempo capisco come questo mondo sia lontano dalle nuove generazioni. C'è stata una separazione totale. Ma la crisi che stiamo vivendo ora è enorme, per questo si sente il bisogno di un nuovo sguardo sul futuro. Le responsabilità forse sono anche della nostra generazione. Figure come quella di Alfredo o anche di Ronconi sono difficili da mantenere in vita. Mala memoria è un primo mattone da cui ripartire».
Negli ultimi sei anni, da quando cioè Ronconi è scomparso, il lavoro portato avanti dal Centro Teatrale Santacristina da Roberta Canotto, erede del suo patrimonio artistico, ha a che fare proprio con il recupero della memoria, attraverso la nascita dell'Archivio, consultabile e digitalizzato dall'Archivio di Stato di Perugia, e il sito internet www.lucaronconi.it, che raccoglie e documenta la preziosa produzione artistica e culturale del regista. Proprio in queste settimane, Rai5 sta trasmettendo un ciclo di documentari, a cura del Centro Teatrale Santacristina, con interviste realizzate agli attori che hanno lavorato con Ronconi (Essere attori. Al lavoro con Luca Ronconi, ogni sabato fino al 10 luglio). Ed è uscito in libreria Regia, Parola, Utopia. II teatro infinito di Luca Ronconi, a cura di Roberta Carlotto e Oliviero Ponte di Pino (Quodlibet), un racconto a più voci sul suo teatro.
«Conoscevo Luca da molto tempo, avevo visto e amato i suoi spettacoli, dall—Orlando furioso" all'esperienza di Prato, che conteneva tutta la sua dimensione utopistica, un progetto ambizioso che credo di poter dire ha cercato di ricreare tutta la vita. Santacristina ha rappresentato in piccola parte questa continuità, "un angolo di libertà" lo chiamava Luca, un luogo di formazione, ma anche una comunità rivolta ai giovani attori». Laboratori che non avevano l'immediata finalità di diventare una produzione. Nel caso dello studio sui "Sei personaggi" furono addirittura tre gli anni di laboratorio che precedettero lo spettacolo, coprodotto con il Piccolo Teatro di Milano. «E con questo metodo di lavoro che abbiamo continuato a lavorare dopo la morte di Ronconi: intrecciando il lavoro sul campo a Santacristina con convegni, studi e pubblicazioni. Il tutto nell'assoluta precarietà che nell'ultimo anno ha messo a rischio la nostra stessa esistenza».
Nel frattempo il materiale relativo a spettacoli, foto storiche e molto altro ancora viene archiviato. «A casa di Luca tutto era disordinato. La scoperta più emozionante è stata l'autobiografia incompleta che abbiamo ritrovato, poi diventata il bellissimo libro curato da Giovanni Agosti ("Luca Ronconi. Prove di autobiografia", Feltrinelli), nato da una lunga intervista di Maria Grazia Gregori. E poi ci sono le sue foto». Scopriamo così che debuttò come attore ne11953 al Teatro Valle di Roma in "Tre quarti di luna" di Luigi Squarzina, messo in scena dallo stesso regista, dove Ronconi recitava accanto a Vittorio Gassman, e ancora, che nel 1957 recitò in "Io sono una macchina fotografica", regia di Michelangelo Antonioni, con Monica Vitti al Teatro Eliseo di Roma. E in tutto quel prezioso materiale è spuntata pure una commedia giovanile mai rappresentata: "Guerra ed estate", di ambientazione borghese, in tre atti, pubblicata sulla rivista Filmcritica nel 1959 per volere di Squarzina. Una commedia mai andata in scena, con tanti attori, ma che sarebbe bello vedere, prima o poi, sul palcoscenico. Le sfide, in fin dei conti, sono sempre piaciute sia a lui che a Roberta. In scena Ronconi provò perfino a raccontare questa crisi politica che ci trasciniamo ormai da anni. «Con Luca ci vedevamo spesso in Umbria, a Collicello, dove io e Alfredo avevamo una casa. Un giorno Luca disse ad Alfredo che avrebbe voluto mettere in scena "Il silenzio dei comunisti" sul destino della Sinistra. Andò in scena anni dopo, nel 2006, per le Olimpiadi invernali di Torino, interpretato da tre straordinari attori: Fausto Russo Alesi (Alfredo), Maria Paiato (Miriam Mafai), Luigi Lo Cascio (Vittorio Foa): "Io parlo della necessità di un pensiero, diceva Alfredo, un nuovo pensiero capace di leggere il mondo in cui siamo immersi"». Ci vorrebbe una grande visione, per una grande Sinistra