Recensioni / Più degli occhi può l'orecchio. Luigi Ghirri canta l'Italia

La vita di Luigi Ghirri cambia il giorno in cui da bambino sfoglia l'album di famiglia. Lo apre, lo consulta, guarda bene i ritratti dei parenti. Lo fa spesso, ma quel pomeriggio lo intervalla con un altro volume che ha preso dallo scaffale: è un atlante geografico. Spulcia le cartine, le stampe geometriche, più alcune fotografie strane: ritraggono continenti lontanissimi in cui compare un omino sullo sfondo, un piccolo essere umano, che sembra fare compagnia a chi sta realizzando gli scatti. Che cosa c'entra quella briciola vivente tra tanto mondo? Perché è lì? La sensazione di Luigi è un moto di curiosità, simile all'emozione scaturita dai ritratti di famiglia. Mappe, genitori e ambienti domestici, ancora mappe, scorci esotici con anime minuscole e buffe. La certezza che là fuori ci sia una nuova geografia possibile da raccontare. Ed è qui, nel momento in cui intuisce il potere dello sguardo, che incontra un futuro: essere fotografo.
Passerà poco tempo. A tredici anni questo bambino di Scandiano, Reggio Emilia, comincerà a vivere la macchina fotografica come un'avventura. La userà intorno a casa, esterni e interni, la userà su quell'Emilia da cui non si allontanerà mai. Poco più di un altro decennio, è il 1970, e la sua carriera si avvierà ufficialmente. Mezzo secolo dopo, la sua arte sarà consacrata e verrà raccontata da un libro prezioso uscito ora per Quodlibet: Niente di antico sotto il sole. Sono i suoi scritti. Leggendoli sembra di ritrovare lo stesso atlante che diede il via a tutto, urna mappa intimissima dell'uomo che fece della fotografia un sentimento dello spazio.

Borges, le coincidenze, un piccolo oggetto
Nel 1986 viene chiesto a Ghirri di raccontare Parigi. È una richiesta che suona strana, perché Ghirri è cucito alla sua Scandiano, a Sassuolo e poi Modena. La sua Emilia. Ma a Parigi qualcosa era successo e ha tutta l'aria di essere una di quelle coincidenze che vale più di una coincidenza. È una storia di quindici anni prima, quando il fotografo si trova in un giardino parigino e nota su una giostra un oggetto composto da più clessidre e una scritta in latino: «Niente di nuovo sotto il sole».
«Dopo alcuni anni — scrive Ghirri leggendo L'ora del vero sentire di Peter Handke – trovai la descrizione dello stesso oggetto che aveva colpito la mia attenzione. Mi è sembrata strana questa coincidenza dello sguardo sullo stesso piccolo oggetto nello sterminato numero di possibilità che offre una città come Parigi, anche per questo non significava particolari affinità, sintonie o storie analoghe. Qualche giorno addietro, leggendo un libro di Borges, mi è tornato in mente tutto questo quando il poeta argentino scrive: "Non c'è niente di antico sotto il sole". Mi sembra che questa frase possa contenere molti dei significati e delle motivazioni che hanno da sempre accompagnato il mio lavoro».
In quel fascio di clessidre che misurano la felicità di una giostra, Ghirri sente uno dei codici della sua fotografia: attraversare tempo e luoghi e percezioni attraverso la visione di un dettaglio di realtà. Come l'omino che abitava gli atlanti. Un filo conduttore che unisce e amplia l'immaginario di geografie smisurate. Una porta sensoriale che apre al desiderio di infinito.

Colori e geometrie: il pittore che disegnò il volto del mondo
Di Borges, Luigi Ghirri adotta anche la storia di un pittore che per anni ritrae laghi, monti, barche, animali, scoprendo che ciascun dipinto è il tassello che compone il proprio volto. Un mosaico di sé stesso e dell'universo. Così ogni immagine ha la sorte di determinarne un'altra, portando il fotografo e lo spettatore a un moto instancabile e conoscitivo. L'errore sarebbe fermare gli occhi a una singola fotografia, accontentandosi, anche se ogni fotografia «deve avere una sua autonomia e validità».
Ecco l'importanza dei colori, midollo di Ghirri, che provocano un'immaginazione cromatica oltre i confini dello scatto. Cromaticità e certamente geometria: nelle opere dell'artista di Scandiano vive una composizione nitida, in cui l'osservatore è la prospettiva iniziale e intermediaria dell'occhio, ma non quella finale. Così si evita di chiudere il cerchio, dando alla quotidianità una prospettiva sempre nuova.
È il moto perpetuo che sorprende tutti: chi guarda, chi è guardato, chi è di lato e sbircia appena. Ogni opera di Ghirri è un'orchestra che si potrebbe accontentare di uno strumento ma non lo fa mai. Anche questo è essere figli della provincia, dove il plurale conta più del singolare e dove il particolare richiama il collettivo. Proprio come il mosaico di Borges, per cui uno sguardo strattona un altro sguardo sotto il segno di una bellezza rivelatoria.

L'Emilia e il suono malinconico della fotografia
«Il mio tentativo di vedere ogni cosa che è stata vista, e di guardarla come se la guardassi per la prima volta, può apparire presuntuoso e utopistico. Ma attualmente è questo che mi interessa». L'ossessione di Luigi Ghirri è dichiarata: risvegliare gli occhi dal torpore dell'abitudine. Insistere su quei soggetti non straordinari, riportando la questione del silenzio, della leggerezza, del rigore.
Il modo per riuscirci è nella propria terra. Rigirarsi tra le mani i perimetri nativi, essere pronti se qualcosa accade. Accade cosa? «Deve esserci qualcosa di strano se una casa con la stalla di fianco e un albero davanti ricompongono e risvegliano una visione di sopite inquietudini, se le finestre chiuse delle case di qualche borgata rimandano a chissà quali segreti o fantasmi dispersi». Il senso di Ghirri è l'ascolto, più degli occhi, come nel bambino che apriva l'album di famiglia e udiva il suono dei legami. Ogni immagine ha un'eco di un mondo là fuori e di un mondo qui dentro, a patto che siano le radici a musicare.
Non è un caso che Ghirri fosse d'accordo con Cesare Zavattini sull'amato Po, grancassa della malinconia. Malinconia intesa come senso familiare e senso di straniamento. E in questa lotta tra origine e straniamento che affiora l'imprecisione della realtà, quasi un paradosso, che permette di riconoscere uno scatto fotografico.
«Malinconia e imprecisione. Credo siano questi i termini più appropriati».

Musica, maestri: così Luigi canta e suona le immagini della vita
E poi c'è Bob Dylan. Che per Ghirri è un territorio di fratellanza. Non è solo questione di musica, ma di postura: oltre alla poetica maestosa, Dylan incarna il rifiuto di concedersi facilonerie melodiche. E lo stesso codice che Luigi vuole nella fotografia, evitando di rifugiarsi «nell'emozione del colore, nella ripetizione ossessiva, nell'uso ripetuto e stucchevole dello stile, nella catalogazione, nelle esasperazioni formali». Dylan fotografa l'America, Ghirri canta l'Italia con la misura del rigore e senza preoccuparsi di perdere la riconoscibilità. Anche se Dylan e Ghirri hanno una precisa identità, in entrambi non esiste la rincorsa al marchio di fabbrica.
Raccontare senza doversi per forza raccontare. Dylan, il grande amore, ma anche Lucio Dalla: per il cantautore bolognese, Ghirri curò le copertine di alcuni album e lo ritrasse in più di una tournée, tra cui quella di New York. Strinsero un sodalizio, un impasto viscerale tra immagini e spartiti e voglia di fiutare la vita. A tenerli insieme c'è un verso dello stesso Dylan: «Adesso la Luna è quasi nascosta e le stelle incominciano a svanire». L'avrebbe potuto scrivere Dalla o l'avrebbe potuto fotografare Ghirri, in una notte dove l'unica cosa che conta è il sogno.

Circoscrivere il moneto interiore, l'Atlante eterno è riuscito
Gli scritti di Luigi Ghirri raccontano di un essere umano preciso. Precisione, riferita a un'anima che capì cocciutamente cosa volesse fare di sé. La fotografia, e prima l'avventura nello studio grafico e le collaborazioni con gli artisti concettuali, sempre e comunque lo sforzo di definire un nitore espressivo. Niente di antico sotto il sole svela questa lealtà creativa, e i suoi infiniti segni. Compresa l'ironia. Ghirri amava l'ironia come distanza dal patetico, e lo dichiarò anche parlando di Alberto Arbasino di cui ammirava «il distacco delle cose che non è, secondo me, lo stare sempre al di fuori, ma la possibilità di stare fuori per vedere tutto con maggiore lucidità, per mettere meglio a fuoco».
Mettere meglio a fuoco: emerse già tutto il pomeriggio in cui il bambino di Scandiano aprì l'atlante, soffermandosi sull'omino delle fotografie strane, come stesse tracciando una propria cartografia del vedere. Anche questo è l'ironico che si insinua, permettendo di scoprire che sotto il sole c'è molto di nuovo.
E adesso?
Oggi, a quasi trent'anni dalla sua morte, Ghirri è più eredità. Molte sono racchiuse in un'intervista del 1982 concessa a Sergio Alebardi. Quando gli venne chiesto quale sua descrizione gli sarebbe andata a genio, Ghirri risponde che gli sarebbe piaciuto essere ricordato per lo sguardo libero dai preconcetti, uno sguardo allargato invece che fisso, maniacale.
E se potesse aggiungere qualcos'altro in questa descrizione? «Beh, allora mi piacerebbe che si raccontasse che ho cercato di circoscrivere il mio mondo interiore. E, se ci fosse un'altra riga, che ci sono riuscito».

Il volume
Niente di antico sotto il sole raccoglie i saggi di Luigi Ghirri (nel ritratto a destra in uno scatto dei 1984) — interprete centrale della fotografia del secondo Novecento — e una selezione di interviste rilasciate lungo l'arco della carriera. Si tratta di un nucleo di testi che, realizzato tra il 1973 e il 1991, alla vigilia della scomparsa, contribuisce in maniera sostanziale alla letteratura del settore in un momento di grandi cambiamenti e vivacissimo fermento. Di carattere ora storico e ora tecnico, personale e teorico, dedicati al proprio lavoro e a quello di altri protagonisti italiani e internazionali della storia della fotografia, gli scritti di Ghirri sono apparsi originariamente su libri, cataloghi, riviste e quotidiani dell'epoca. Raccolti in un'unica pubblicazione, consentono di ripercorrere l'articolato intreccio tematico, concettuale e poetico che sta alle spalle dell'opera ghirriana, costituendo allo stesso tempo una complessa impresa di scavo sulla natura della fotografia.

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