Recensioni / Nell'isola dei naufraghi

«Pezzi in prosa» di Robert Walzer: una serie di bozzetti all’insegna del minimo e dell’insignificante. L’arte della mediocrità per fuggire dal mondo senza enfatizzare la latitanza.

Quel poco che rimane quando si matura la coscienza di non poter costruire: da qui i testi brevi, spesso brevissimi, che caratterizzano la produzione dello scrittore svizzero Robert Walser. Abbozzi, elzeviri, pagine di diario, veri e propri racconti, ma non reperti che giungono dal niente, non briciole di assenza, piuttosto le silenziose registrazioni di una carenza. Quella seducente carenza che ad esempio nella pagine di un contemporaneo come Musil - ma del resto in molta letteratura novecentesca gremita di antieroi trascinati nelle spire di «un assoluto negativo» prima romantico, poi nichilista -, si produsse in una riflessione sistematica sulla condizione dell'uomo europeo, del naufrago «senza qualità».
Ma la prosa di Walser non ambisce mai a diventare una valutazione veramente esaustiva del mondo. Essa resta sempre incollata alla vicenda personale, al cono d'ombra che nella vita portò l'autore dei Fratelli Tanner ai limiti dell'emarginazione, della follia. Unico certificato comprovante la caduta di ogni certezza, la fine di ogni possibile sistema di legittimazione del senso, l'irrilevanza della realtà e però colta nel suo scorrere, un pullulare ininterrotto ed evanescente di forme e colori che inebria il corpo e la mente, nel quale alla fine immergersi per smarrirsi. A questa «fusione di estrema involontarietà e suprema intenzione» (Benjamin), appartengono anche le microstorie raccolte nel volumetto Pezzi in prosa del 1916. Una serie di bozzetti, vere e proprie anticamere di soggetti mai sviluppati anzi superbamente esauriti sul nascere, che si qualificano come una delle prove più alte di quell'arte, tipicamente walseriana, di dileguarsi nel minimo, nell'insignificante. Un documento oltretutto prezioso per esplorare il processo creativo dello scrittore, il suo modo di lavorare, da affiancare per intensità e felice equilibrio all'altro libro di Walser ripubblicato sempre da Quodlibet, Una cena elegante, i racconti con i quali, soltanto nel '61, grazie a Lerici, in Italia venimmo a conoscenza di questo straordinario autore.
Lo sguardo smagato del «flaneur», del perdigiorno a spasso per le strade «mentre le ore scherzano con lui e lui con loro», torna in questi Prosastücke dove, come afferma Agamben nell'introduzione, è la contaminazione dell'azione teatrale a radicalizzare la narrazione e se «ogni pantomima contiene l'elemento iniziatico, le pantomime di Walser sono iniziazioni in cui non vi è nulla da imparare, gesti in cui 1'uomo si smaga da ogni mistero: passeggiate». Sospese aspettative di qualcosa che è sul punto di accadere, o di precipitare, le passeggiate di questi brevi componimenti, pur nella loro asciuttezza, riescono a condensare magistralmente le fisionomie di personaggi già conosciuti.
Si prenda il penultimo racconto, nel quale il vecchio Schwendimann conclude il suo lunare pellegrinaggio soltanto quando trova la pace eterna; nel continuo vagare come perduto, «disperso nella vastità del mondo», non è difficile riconoscere, in forma archetipica, il cliché di Simon Tanner: il protagonista dell'omonimo romanzo che, reclamando come unica identità quella di essere scrivano, sfugge alla società «strisciando negli angoli e nelle fessure della vita». Come recita in una poesia del 1909, L'ufficio: «essere carente e la mia sorte», così Walser diventa il cantore di una mediocrità quale tentativo estremo per fuggire dal mondo, restandovi allo stesso tempo aggrappato, in mezzo al quotidiano. Lontano da ogni enfatizzazione della fuga, della latitanza come eversione verso chi gli sta intorno, l'assenza di qualità mette in atto quella che è stata giustamente definita da Magris, una delle fondamentali rivoluzioni della letteratura moderna, «quando il soggetto cerca di autoreificarsi per sfuggire al potere, identificandosi con il sistema che vuole stritolarlo e mimetizzandosi per non venire individuato». Walser si è spinto addirittura più avanti, nel romanzo Jakob von Gunten,l'Istituto Benjamenta sforna autentiche nullità, avendo il delicato compito di trasformare i ragazzi in gusci vuoti. In questo modo, e giunti alla perfezione, il prodotto migliore potrà seraficamente affrontare il mondo, convinto che «se io andrò in pezzi e in malora, che cosa si romperà, che cosa si perderà? Uno zero». Come dire niente.

Robert Walzer, Pezzi in prosa Quodlibet, pp 99 £.16.000