Dietro San Francesco della Vigna, i due
grandi ex gasometri dell'Italgas diventeranno dei grandi alberghi o residence
di lusso della società Mtk, a onta delle
mobilitazioni e dei progetti "dal basso"
che per anni hanno immaginato e proposto un destino diverso; un altro grande albergo a cinque stelle prenderà il
posto dell'Ospedale al Mare del Lido,
auspice la Cassa Depositi e Prestiti e col
sostegno dell'Università Ca' Foscari; la
potentissimaSave, peraltro fresca di accordo col medesimo ateneo, riproverà
ad aumentare le piste dell'aeroporto
"Marco Polo" in vista dell'obiettivo dei 20 milioni di passeggeri annui (nel 2019
erano 11, e la metà si riversa direttamente sul centro storico); per la cultura, ben 170
milioni del Pnrr pioveranno sull'istituzione più ricca e sponsorizzata, la Biennale.
Altro che un "nuovo inizio", altro che "ripensare Venezia": la pandemia va su
perata come un raffreddore, bisogna avere il "frigorifero pieno" qui e subito. In
senso strettamente economico - come in un Paese del Terzo mondo ricco di risorse minerarie - ci troviamo dinanzi aunaformadi "estrattivismo" che colonizza
il luogo, incoraggia la monocoltura, spreme e rovina il giacimento, concentra la
ricchezza (per lo più di rendita) in poche mani, e disgrega irreversibilmente il tessuto sociale. L'analisi del fenomeno in questa chiave di degenerazione capitalistica è al centro del prezioso volume di Giacomo-Maria Salerno, Per una critica
dell'economia turistica (Quodlibet 2020), in cui Venezia rappresenta lo studio
principale. Lo sguardo laico e disincantato dell'autore (classe 1986, veneziano e
filosofo) critica gli "esteti della conservazione" che magari in buona fede contribuiscono alla musealizzazione della città (algida vetrina di monumenti che perdono ogni senso, consegnati alla mera esibizione e al consumo passivo, e di fatto
inaccessibili all'uso vivo), e demistifica i luoghi comuni sul turismo straccione e
"cattivo" ("signora mia i Pink Floyd , "e quello che si è tuffato in canale") branditi
dall'élite di danarosi proprietari stranieri che mirano a fare di Venezia un parco a
tema per ospiti facoltosi in cerca di posti cosy, estromettendo non solo i cittadini,
ma anche i visitatori che garantiscono introiti più modesti. In ogni caso, apochi sta
a cuore il fattore chiave, ovvero "la comunità che pur vive nel monumento, con il
monumento, del monumento" (W. Dorigo), ossia la persistenza o la ripresa di
qualche forma di vita vera in un organismo urbano che già HenryJames ne11892
giudicava "la più splendida delle tombe". Essenziali, dunque, per sfuggire agli slogan del momento, le riflessioni di Salerno sull"`esperienza" come merce, sull'alienazione come caratteristica strutturale della leisure programmata dal sistema
capitalistico e dalla società dello spettacolo, sull'inautenticità (patetica, quando
non pelosa) della "corsa all'autentico" nella fruizione di luoghi ormai compromessi dalla moltiplicazione incontrollata e venale della loro stessa immagine, del
loro mito spento. Venezia è oggi vecchia e spopolata, in cui i 2/3 delle transazioni
immobiliari riguarda non residenti, il
12% delle case è Airbnb, il prezzo medio
a metro quadro (ca. 3.100 euro) resta
tra i più alti d'Italia. La pandemia ha
svelato quanto fragile fosse il gigante,
nella desolazione degli spazi senza più
né grupponi né abitanti reali, delle case
silenti, dei negozi condannati alla
chiusura o rilevati dai cinesi, del sottoproletariato immigrato già assunto al
nero e finito a chiedere la carità.
Come è stato possibile arrivare fin
qui? Salerno ripercorre alcuni snodi
salienti della vicenda economica e urbanistica della città, ma chi voglia capire davvero la parabola di questa tourist gentrification che non ha eguali
nel mondo dovrà leggere lo studio storico-antropologico di Clara Zanardi,
La bonifica umana (Unicopli 2020):
mette in luce come lo spopolamento di
Venezia sia stato il risultato di scelte
ben precise, che sin dalla fine dell'Ottocento hanno mirato prima ad abbandonare a1 degrado le zone popolari
(investendo nell'affluente turismo
balneare del Lido) e poi a realizzare
quella "bonifica umana" di cui parlò
Vittorio Cini nei 1935. Via dunque la
"turba di accattoni" che comprometteva il decoro della Laguna, via le attività produttive che pure erano state
installate a Santa Marta, alla Giudecca e altrove: meglio rigettare la
plebe nell'alacre e operosa "Venezia nuova" in terraferma, mentre le
isole storiche rimanevano dedicate alla rappresentanza, agli uffici
delle classi borghesi, al terziario
"pulito". Non è un caso che il conte
Giuseppe Volpi sia stato al contempo padre dell'industrializzazione di Porto Marghera e ideatore
della Mostra del Cinema (la Coppa
ai migliori attori ancora porta il
suo nome).
È incredibile come, finita la
sbornia del regime, la stessa prospettiva politica (espulsione delle
classi medie e produttive, rapida
deindustrializzazione, soppressione dell'eterogeneità economica, ipertrofia della rendita immobiliare) sia proseguita anche nel secondo dopoguerra, inverata nell'estromissione di 84mila persone dal
1951 al 1968, favorita dalla concomitante esplosione del turismo di
massa, e foraggiata dalle Leggi Speciali. Dopo decenni di giunte comunali deboli,
commissariamenti, lungaggini e deroghe nei Piani regolatori, fu decisivo in tal
senso il ventennio del sindaco Cacciari, quello per cui il turismo è "una risorsa
straordinaria e strategica": fu allora che si smantellarono le regole urbanistiche, si
liberalizzarono le destinazioni d'uso, si avviarono brutte speculazioni, si privatizzarono spazi pubblici e funzioni urbane consegnando il centro antico alla monocoltura turistica e ripulendolo delle residue attività artigianali e produttive. Una
prosecuzione in senso post-fordista del modello volpiano della "bonifica umana",
che haprodotto nella popolazione un senso di rassegnazione, una sorta di orgoglio
nostalgico e frustrato con riflessi di diffidenza aggressiva verso i più deboli (il sottoproletariato cinese o bengalese) o contro gli stessi escursionisti che sporcano,
anziché contro il sistema drogato che li porta a Venezia senza che sappiano bene
dove si trovano, né che la città è ancora (debolmente) abitata, non avendo per ora
del tutto completato la sua parabola di disneyficazione in parco a tema.
Un recentissimo documento dell'esperto Giuseppe Tattara, pubblicato sul sito VeneziaCambia, prova a uscire dalla geremiade e fa proposte concrete per il
futuro: anzitutto per ripopolare e ringiovanire la città (che ha perso 18mila abitanti negli ultimi vent'anni, quasi tutti under 50), anche favorendo l'insediamento nei tanti alloggi vuoti o sfitti di giovani immigrati di talento e di studenti
italiani e stranieri da trattenere poi in loco offrendo loro adeguate opportunità.
Tattarahafiducianel rilancio dellavocazione imprenditoriale di Venezia, purché
incentivi e progetti coinvolgano direttamente gli abitanti, e purché il pubblico
operi come stimolo e non a fondo perduto: residenzialità per studenti e per giovani coppie, riuso di spazi dismessi, percorsi scuola-lavoro e incubatori d'impresa, con particolare insistenzasullafilieradell'arte e della cultura (davvero solo
la Biennale?), sull'inclusione sociale, sulla transizione ecologica e sull'innovazione. Prospettive difficili: e nulla di tutto ciò è alle viste nel tristissimo scenario
post-pandemia, dominato dai soliti noti e dai soliti interessi - porto, aeroporto,
armatori, immobiliaristi, ristoratori, hotelier -. Ma il fatto che Salerno e Zanardi,
autori dei due splendidi libri di cui abbiamo detto, facciano 70 anni in due, suscita almeno qualche speranza nello spirito vigile delle giovani generazioni.