Il volume, frutto della rielaborazione della tesi di laurea dell’a., oggi specializzanda
in Beni storico-artistici a Udine, costituisce un contributo prezioso per l’analisi dell’iconografia
razzista prodotta dall’Italia fascista; prendendo in esame le immagini e le caricature
pubblicate dalla stampa italiana in occasione della guerra d’Etiopia, rappresenta una
utilissima «cronaca visiva della questione razziale nell’Italia fascista», come scrive la storica
dell’arte Federica Rovati nella prefazione (p. 9).
L’a. propone un’attenta e ricca disamina della vasta produzione grafica – illustrazioni,
caricature, fotografie, cartoline, fotomontaggi – pubblicata sulla stampa italiana durante
la guerra d’Etiopia a fini di propaganda. Di particolare interesse non è solo l’analisi
di temi ricorrenti nelle immagini, ma l’impegno di rintracciare i modelli – sovente del
tutto eterogenei al contesto di produzione degli anni 1935-1936 – che vennero utilizzati
per rappresentare l’indigeno.
Numerosi sono i temi presenti nei cinque capitoli del libro: la rappresentazione degli
abissini – che siano il Negus o la popolazione – si muove fra riferimenti alla loro natura
selvaggia e rinvii al carattere minaccioso e serio degli avversari da sconfiggere, come del resto
le veline indirizzate alla stampa indicavano, sottolineando che non si doveva ridicolizzare
l’esercito nemico, né esagerare con i toni caricaturali nel raffigurarlo. Come precisa l’a.,
emergono «due diverse visioni dell’Africa nera, orientate in direzioni contrastanti: un’Africa
vittima e una carnefice, un’Africa seducente e una ripugnante. Un’Africa animalesca, nella
quale il negus e i suoi ras assumono nientemeno che le sembianze di scimmie, ma allo stesso
tempo, un’Africa istruita e compromessa dal potere economico occidentale» (p. 16).
Esemplificativo di questa ambivalenza è il tema della schiavitù, considerata come
un emblema della barbarie abissina e presentata come uno dei motivi di legittimazione
della «missione di civiltà» portata dall’Italia fascista in Africa. Al riguardo, nelle immagini
esaminate si nota un riferimento ricorrente alla storia coloniale europea; risultano
con chiarezza le manipolazioni e le riutilizzazioni dei «prototipi iconografici» proposti,
utilizzati in contesti affatto diversi e talvolta con un significato opposto rispetto a quello
della produzione originale; si utilizzano spesso immagini tratte dalla stampa francese di
fine ’800, o di altre aree dell’Africa (si veda alle pp. 144-145 l’immagine di alcune teste
decapitate, pubblicate su «Quadrivio» nel luglio 1936, ripresa dalla rivista francese «L’Illustration
» del 1891).
Spesso i modelli sono quelli di manifesti e réclame di prodotti commerciali, che
furono strumenti per veicolare gli stereotipi relativi alle persone di colore diffusi dal XIX
secolo (l’abbinamento del colore della pelle con il cioccolato, ad esempio). Queste contraddizioni
sono evidenti nell’immagine duplice della donna africana: o Venere nera o
selvaggia ripugnante (capitolo 2), che si serve di raffigurazioni di epoche precedenti ma
anche di segni e raffigurazioni coeve di danzatrici o cantanti nere occidentali.