Recensioni / Parola di fotografo: Luigi Ghirri

La luce del giorno striscia e pian piano si intreccia ai filamenti della notte ancora presente. La nebbia si sveglia presto la mattina, piccole e pesanti nuvole accarezzano la superficie dei campi e lentamente si destano abbracciandosi pian piano al cielo; il respiro fa il pieno di umidità. C’è un po’ di ghiaia ai lati dell’asfalto, i passi dell’uomo quasi gracidano mentre si allontanano dall’auto parcheggiata distrattamente al ciglio della strada. La macchina fotografica in mano e lo sguardo abbottonato alla campagna, pezze di stoffa coltivate ricoprono l’orizzonte con i loro colori dal sapor di terra. Il gracidare ammutolisce tutto d’un tratto, il fotografo si ferma ad osservare. Le palpebre sono saracinesche impazzite e attente cercano il prossimo scatto. Le dita danzano tra i tasti e le ghiere della Pentax.
Non siamo difronte all’opera di un moderno Friderich: quell’uomo, piccolo punto difronte alla vastità dell’orizzonte si chiama Luigi Ghirri (Scandiano 1943 – Roncocesi 1992), attento osservatore della realtà in questo regno dell’analogo che è il mondo. Considerato oggi come uno dei maggiori fotografi italiani non corrisponde però forse all’idea tipica che siamo abituati ad avere sul mondo della fotografia. Lui non è quello delle belle immagini contrastate o dai colori vividi, non è quello dei tecnicismi o della luce perfetta, non quello degli shooting o delle immagini mozzafiato. Con lui si parla invece di immagini del banale e dell’ordinario che si fa infra-ordinario, di racconti e di quotidiane prime visioni in luoghi comuni: “Mi ha sempre interessato il vivere quotidiano, normale, della gente e a anche l’interazione con i luoghi o spazi di divertimento, con luoghi o spazi di contemplazione.”
Lontano dal modo comune a tanti di abitare il mondo, intriso di sguardi veloci e passi frettolosi che riempiono il vaso della disattenzione, Ghirri con le sue immagini e le sue parole, anche a distanza di decenni riesce a lasciare all’osservatore attento gli strumenti necessari per vivere il presente.
Fresco di stampa arriva infatti nelle librerie Niente di antico sotto il sole edito da Quodlibet. Il testo, con l’introduzione di Francesco Zanot, raccoglie il corpus di scritti e le interviste rilasciate dall’artista.
Le pagine, come inquadrature, mettono a fuoco il pensiero denso e spontaneo del fotografo emiliano: righe che parlano di fotografia, quella del suo lavoro e quella di altri colleghi da Evans ad Adams, righe che talvolta divagano anche in più ampi orizzonti ricostruendo quell’affascinante intreccio che la fotografia possiede con gli altri mondi dell’arte. Scritti come frammenti di storie, di immagini, di luoghi. Identità del fotografo che come un rullino si svolge insieme a quella del mondo.
Il testo, ricco di stimoli e spunti, non ha bisogno di immagini alle quali agganciarsi: per tutto il libro sono le parole a farsi carico dell’immaginario. Anche la copertina, completamente bianca se non fosse per titolo e autore, potrebbe essere recepita come una sorta di stimolo/provocazione. Un testo che parla di fotografia nella quale non se ne trova nemmeno una, come un invito a diminuire la velocità di uno sguardo troppo vorace. La fotografia, oggi come allora, potrebbe possedere anche questo ruolo ovvero quello di “rallentare la velocizzazione dei processi di lettura di un’immagine”: fotografia come lentezza dello sguardo. Ruolo sovversivo nell’era dei social. Immagini volte ad avviare un processo di conoscenza del visibile, che non sempre traspare sulle superfici ai sali d’argento del fotografo emiliano in maniera diretta, ma inequivocabilmente rintracciabile all’interno di noi stessi come persone e collettività. “Io con la fotografia testimonio quello che ho visto ma non solo. Reinvento anche quello che ho visto. Sostanzialmente la fotografia non fa altro che rappresentare le percezioni che una persona ha del mondo reinventandolo, prendendo il reale o una delle sue facce e rimodellandola.”

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