Se è vero, come ha sottolineato tempo fa Hubert Damish, che il primo incontro con l'opera d'arte si realizza negli spazi dell'esposizione, dove oggi l'arte
sempre più spesso
non si mostra soltanto ma viene alla luce e, più raramente,
muore, è inevitabile che gli Exhibition Studies occupino da
qualche anno un posto decisamente privilegiato nella ratio
studiorum di chi vuole partecipare — da storico dell'arte, da
critico, da artista, da advisor e
soprattutto da curatore — alle
fatiche e ai fasti del sistema globale dell'arte.
Germano Celant, che per oltre mezzo secolo di questo sistema è stato protagonista e costruttore, non ha del resto mai
perso occasione per ribadire
che la scrittura espositiva non
è un banale corollario dellapratica critica, un momento di visualizzazione o, nel migliore
dei casi, di verifica di tesi maturate nelle stanze dell'accademia o negli studi degli artisti.
Al contrario. «Mi sono reso
conto che per cinquant'anni
ho praticato diverse scritture:
a) la teorica, per la stesura di
saggi e interpretazioni su singoli artisti e temi o momenti
che hanno segnato la storia
dell'arte moderna e contemporanea; b) l'editoriale, per la
costruzione di libri e cataloghi
(... ); c) l'espositiva, il cui contributo si traduce in momenti
pratici e concreti, che vanno
dalla selezione delle opere, alla loro distribuzione e alla loro
messa in scena negli spazi architettonici, all'informazione
e alla comunicazione che sono
necessari per una lettura allargata e pubblica».
E con questa premessa che si
apre The story of (my) Exhibitions, l'ultima e purtroppo postuma pubblicazione di Germano Celant, scomparso nell'aprile dello scorso anno di ritorno
dall'Armory Show di New
York, l'ennesima vittima di un
virus che non ha certo risparmiato il mondo dell'arte. Il monumentale volume, appena
uscito da Silvana editoriale
(pp. 557, € 70,00) era in cantiere già dal 2017 ed è stato portato a termine da Argento e Paris
Murray Celant, il figlio e la moglie del critico, che si prendono
oggi cura dell'eredità, tanto importante quanto impegnativa,
dello Studio Celant. Evidentemente pensata per una diffusione internazionale (i testi sono in inglese con la traduzione
in italiano riportata in appendice), quest'opera dalla solida architettura e dalla ricchissima
documentazione conferma
pienamente il metodo e la sensibilità del critico.
Fin dai suoi precoci esordi —
nato nel 1940 a Genova, dove
ha studiato storia dell'arte con
Eugenio Battisti, Celant nel
1967 curava Arte povera - Im spazio alla galleria Bertesca, inaugurando quella fortunata avventura poverista a cui il nome
di Celant è indissolubilmente
legato — il critico nel suo lavoro
dentro e fuori le grandi istituzioni internazionali ha infatti
sempre considerato indispensabile la raccolta e l'organizzazione dei documenti, insistendo ogni volta sulla necessità di
mettere in fila le date e i dati
per costruire dettagliate, e comunque critiche, cronologie.
Si tratta di una scrupolosa
storiografia del presente, improntata a una vera e propria
passione archivistica (Derrida
parlava del Mal d'archive) che si
riconosce in ogni passaggio della lunga e fortunata attività di
Celant, impegnato già nell'estate del 1972 a stabilire i passaggi cruciali della minimal
art, dell'arte concettuale, della
land art, della body art, dell'arte ambientale, dei nuovi media
e, naturalmente, dell'arte povera, ordinandone le ancora
brucianti vicende nelle pagine
di Preconistoria 1966-69, un libro
edito nel 1976 dal militante
Centro Di e di recente riproposto da Quodlibet.
Seguendo questa traiettoria, anche The story of (my) Exhibitions si offre, innanzitutto, come un formidabile regesto,
una puntuale raccolta di testi
e, soprattutto, di immagini, riproduzioni di copertine e fotografie, spesso inedite, degli allestimenti delle trentaquattro
mostre collettive selezionate
per questa impressionante storia — dell'arte, della curatela e
anche della museografia — che
va da11967 a12018, quando nella sede milanese della Fondazione Prada, di cui Celant è stato dal 1995 direttore artistico e
poi soprintendente artistico e
scientifico, il critico ha curato
Post Zang Tumb Tuuum: Art Life
Politics. Italia 1918-1943, sicuramente una delle proposte espositive più ambiziose di questi
ultimi anni.
Fatta inevitabile eccezione
per le immagini della tante volte celebrata Arte povera + azioni
povere dell'ottobre 1968 ad
Amalfi, una rassegna dove l'elemento performativo e il vivace
confronto critico costituivano,
negli spazi degli arsenali come
nell'aperto della città e del paesaggio, parte integrante dell'evento, le fotografie che sono
state selezionate per il volume
preferiscono quasi sempre al
rumore del pubblico il silenzio, la solitudine senza turbamento degli allestimenti. Anche la scelta di adottare per tutte le immagini un austero bianco e nero, da sempre molto
amato dagli storici dell'arte e
dell'architettura, contribuisce
a enfatizzare soprattutto le relazioni spaziali, rende più leggibili quei rapporti di luce e di
ombra che costituiscono la cifra di una scrittura espositiva
che, pur nelle inevitabili e opportune trasformazioni, in tutte le mostre documentate mantiene costante l'attenzione a
quella che Celant ha chiamato
la «coincidenza espressiva tra
arte e ambiente».
E proprio Ambiente/Arte era il
titolo nel 1976 di una delle mostre più note e influenti che il
critico ha progettato e allestito
nelle stanze, per l'occasione riportate all'originario rigore,
del Padiglione Italia al Giardini
della Biennale. Oltre a rappresentare uno snodo cruciale nella carriera di Germano Celant,
il quale matura in questa occasione la piena consapevolezza
che «l'arte crea uno spazio ambientale nella stessa maniera
in cui l'ambiente crea l'arte»,
elaborando compiutamente
una «visione sferica» dell'arte,
una ricerca di connessione che
ha orientato nel corso degli anni il suo lavoro curatoriale, questa mostra è stata anche un cruciale laboratorio, teorico e pratico, per la definizione, tuttora
irrisolta, del genere, oggi trionfante, dell'installazione. Un'arte «senza cornice», in bilico fra
opera ed esposizione, un linguaggio impuro che guarda alla collezione e al teatro. necessariamente time, oltre che site
specific, che in quella lontana
rassegna ebbe modo di mostrarsi oltre che nelle sue declinazioni più recenti anche nelle
sue premesse storiche attraverso fotografie e ricostruzioni (la
Prounernraum di El Lissitstky, il
Merzbau di Kurt Schwitters,
l'ambiente progettato nel
1922 da Kandinsky per la Juryfrei Kunstshau). Un lavoro che
Celant ha definito di «scavo archeologico» in cui vennero
coinvolti anche gli ambienti di
Klein a di Arman e che ha inaugurato una linea espositiva e di
ricerca, quella delle «mostre in
mostra», divenuta ormai canonica e di cui proprio Celant ha
firmato alcuni dei momenti
più significativi.
Tra le mostre raccontate in
questo volume c'è infatti anche il reenactement di When attitudes became forms, l'esposizione curata nel 1969 alla Kunsthalle di Berna da Harald Szeemann e rimessa in tutt'altra
scena— Ca' Corner della Regina
a Venezia — da Celant nel 2013.
Un'operazione che suscitò reazioni di segno opposto e che
ora si mostra impeccabile nelle foto che la presentano, scatti
eleganti in cui non si vedono le
assenze e i disagi. Una conferma di come, per quanto ricca e
accurata sia, come in questo volume, la documentazione,
niente può sostituire l'esperienza della mostra, che come
ogni installazione trova nel corpo del visitatore la sua, sempre
parziale, verità.