Recensioni / Mariano Croce, Postcritica

Nell’agile Postcritica. Asignificanza, materia, affetti, Mariano Croce porta a compimento l’esplorazione di una proposta filosofica coniata dalla studiosa di letteratura Rita Felski sulla scorta di Eve K. Sedgwick e di Bruno Latour. Come suggerisce il prefisso, la postcritica si pone come alternativa alla critica, la cui forza dirompente, secondo gli autori e le autrici che sposano questa prospettiva, sembra essere venuta meno. L’atteggiamento «sospettoso» e talvolta «paranoide» della critica, infatti, avrebbe contribuito a trasformare tale pratica analitica in una retorica di maniera, se non in un vero e proprio genere letterario caratterizzato dalla ricerca dei motivi reconditi dietro l’emergere di un oggetto, oppure dalla presa di distanza rispetto al fenomeno sotto esame. La postcritica si propone invece di studiare le molteplici e mutevoli connessioni fra oggetti, rifiutando l’indagine della profondità e prediligendo la superficie e la prossimità.
Già nel 2017 Croce aveva messo a tema la postcritica in due articoli: Etnografia della contingenza: postcritica come ricerca di connessioni, apparso in «Politica & Società», e Postcritica: oltre l’attore niente, apparso in «Iride». Qui l’autore poneva l’accento sull’elemento sociologico della postcritica, difendendo, nel primo articolo, una nozione relazionale del sociale e riprendendo, nel secondo, la teoria di Latour per suggerire un’etnografia capace di mappare le connessioni fra attanti. Nel 2018 Croce ha poi curato un numero speciale di «Politica & Società» sul tema, nel quale filosofe e filosofi italiani (tra cui Croce stesso con Elogio dell’imprecisione) hanno messo la postcritica a confronto con il pensiero di Hannah Arendt e di Michel Foucault, oppure con correnti filosofiche quali il pragmatismo e il New Materialism.
Croce è stato dunque il primo a tradurre al contesto italiano un progetto filosofico sorto in ambiente anglosassone, offrendogli tuttavia un taglio «personalissimo», per dirla con le parole dell’autore. Infatti, già in questi primi testi, egli non si è limitato a esporre le ragioni dell’esaurimento della critica – «la più blasonata delle creature filosofiche», come si legge in Postcritica (7) – bensì ha contribuito a estenderne il raggio e il canone, includendovi le «utopie quotidiane» della filosofa Davina Cooper, approfondendone il legame con la sociologia di Latour e, più in generale, restituendole quel carattere di prassi o ethos che Foucault attribuiva alla critica e che la postcritica si propone di riattivare in maniera del tutto nuova.
Il tono di Postcritica, come Croce riconosce, è diverso rispetto a quello dei suoi articoli precedenti, finalizzati a rileggere la postcritica in chiave sociologica, e forse più simile a quello di Elogio dell’imprecisione. Nel volume edito da Quodlibet, la descrizione degli elementi più eminentemente teorici della postcritica – la sostituzione della svolta linguistica con l’affective turn; la difesa della superficie, del locale e dell’«asignificanza» contro la profondità, il globale e la significazione; la destituzione dei binarismi che dominano la scena del pensiero – è breve. Il reale intento di Croce non è quello di autorizzare filosoficamente la postcritica, ma di metterla in pratica: detto con i suoi stessi termini, egli intende «fare postcritica» (ibidem). La postcritica viene dunque configurandosi come una pratica quasi-letteraria in cui lo stile e la lingua assumono un ruolo centrale. È in questo spirito che Croce raccoglie la sfida di mettere la postcritica all’opera: lo fa attraversando, nel secondo capitolo, i testi di Giorgio Manganelli, Raymond Queneau e Clarice Lispector.
Il terreno della letteratura, a dire il vero, non è estraneo alla postcritica nella sua veste originale. Felski stessa colloca The Limits of Critique (2015), opera-manifesto della postcritica, entro l’ambito degli studi letterari e culturali, presentandola come una modalità di analisi alternativa alla critique, ovvero a quegli approcci al testo che impediscono di comprenderne la dimensione affettiva, oppure che tacciano di acriticità tutto ciò che non si dichiara critico, o ancora che ricercano negli oggetti indagati una conferma delle proprie premesse analitiche. Gli scritti di Manganelli, Queneau e Lispector illustrano, secondo Croce, tre modi diversi di mettere in gioco l’«asignificanza» che esulano dai protocolli della critica. Essi non solo rivelano connessioni inedite tra parole e cose, ma evidenziano il dissesto del linguaggio e riconducono il verbo a materia e movimento. L’interpretazione postcritica che Croce offre di questa insolita triade letteraria è certamente originale, poiché è attraverso di essa che l’autore riformula l’insoddisfazione della postcritica nei confronti della tradizione semiotica.
«Materia» e «affetti» sono gli argomenti centrali, rispettivamente, del terzo e del quarto capitolo. Della prima Croce sottolinea la forza agentiva e il carattere relazionale, ispirandosi alla filosofia «quantica» di Karen Barad. Gli affetti, dal canto loro, sono intesi alla maniera spinoziana come effetti della composizione o «intrazione» fra corpi. Più di ogni cornice linguistica è il contatto fra corpi, sostiene Croce, il punto di partenza per apprendere la realtà. Ed è qui che il progetto di creare un nuovo vocabolario per la postcritica prende compiutamente forma. Il termine più atto a descrivere la realtà, secondo Croce, è «chemiotassi»: «non c’è legge generale delle composizioni», egli annuncia, «perché ognuna di esse è riducibile ai suoi affetti: l’oggetto è in fondo di volta in volta riducibile all’effetto connettivo che determina» (p. 78). Come la scienziata e lo scienziato naturale osservano il farsi e disfarsi dei legami fra microorganismi in base alla loro composizione chimica, così la ricercatrice e il ricercatore postcritici osservano le aggregazioni contingenti, fugaci e inattese fra corpi. Il «nuovo lessico ontologico» della postcritica si nutre dunque del linguaggio scientifico piuttosto che di quello critico-filosofico.
L’immagine della postcritica che emerge dal libro di Croce è quella di una scommessa e di una promessa a un tempo. Solo raccogliendo la scommessa della postcritica possiamo sperare, secondo l’autore, di ottenere un antidoto contro i limiti, le convenzioni e finanche gli abusi della critica. Quest’ultima non è forse del tutto «run out of steam», come sostiene Bruno Latour, ma ha certamente bisogno di revisione. Postcritica di Mariano Croce è senza dubbio un passo in avanti verso questa direzione, sebbene lasci aperta una questione. Dopo la sua lettura, resta infatti da chiedersi se la postcritica, pur impegnata nel nobile compito di ampliare il canone e di aprire l’analisi letteraria al nuovo e all’inaspettato, non si ritrovi talvolta a ricercare nei testi che prende in esame una conferma delle proprie premesse analitiche, rischiando di riprodurre un limite della critica al quale essa stessa intenderebbe ovviare