Nel dialetto gradese il termine
«critolèo» indica lo scricchiolio
continuo che si sente calpestando sul bagnasciuga le conchiglie. Un simile "scricchiolio" è
stato immaginato dal poeta
Biagio Marin (1891-1985) a
proposito di quanto avvenne,
tragicamente, al corpo di Pier
Paolo Pasolini, fracassato dal
peso dell'automobile che passò
sul poeta stordito dalle percosse del suo assassino, il diciassettenne Giuseppe Pelosi, l'unico condannato (o forse, come
da molti indizi oggi sembra
più probabile, dei suoi assassini). Marin fu molto impressionato dalla fine atroce di Pasolini e quasi di getto scrisse una
serie di tredici poesie in dialetto gradese che uscirono nel
1976, l'anno dopo la morte
dell'amico poeta, in un volumetto stampato da Scheiwiller avente come titolo un loro
verso: "El critoleo del corpo fracassao".
Ora quei testi tornano in libreria in un libro pubblicato
dalle Edizioni Quodlibet di
Macerata: El critoleo del corpo fracassao. Litànie a la memoria de Pier Paolo Pasolini
/ Lo scricchiolio del corpo
fracassato. Litanie in memoria di Pier Paolo Pasolini (cura e traduzione di Ivan Crico,
con estratti dai diari inediti di
Biagio Marin a cura e con un
saggio di Pericle Camuffo, testo a fronte, pagg. 88, euro
14,00). La figura di Pasolini si
staglia nei versi di Marin sullo
sfondo del suo Friuli: «Nostra
tera furlana, / la più bela che
sia, / dolse la to magia,/ che
tien l'anema sana». Ne scaturisce un ritratto dolce e commosso: «Tu geri fin e mite,/ esperto de le carte/ e d'ogni arte / de
le legi ne la coscienza fite.
La to vose in surdina / l'aveva
el son del celo, / suadente ritornelo/ d'un'anema fina. Umile gera el to discorso / e mai imperioso: / musica suso e zoso, / rogia dal dolse corso».
Marin doveva molto a Pasolini: era stato quest'ultimo a scoprire la sua poesia e ad accreditarlo, alla metà degli anni '50,
già sessantenne, sulla scena
letteraria nazionale. Due cose,
però, facevano problema
all'anziano poeta per una serena valutazione del più giovane
e autorevole collega: il marxismo e l'omosessualità. Che erano anche le due grandi "questioni" agli occhi di quell'opinione pubblica borghese che
Pasolini
tanto detestava.
La condizione omosessuale,
in particolare, mai
nascosta dal poeta di Casarsa,
destava in Marin imbarazzo,
sebbene non riprovazione. Lo
si evince da alcuni appunti diaristici, posti in appendice alle
poesie, dai quali emerge tuttavia anche l'apprezzamento,
seppure ambivalente, di certi
aspetti del carattere pasoliniano: «Io non ero d'accordo con
la sua pederastia, e non con il
suo ingenuo comunismo, e
non con il suo bisogno di scandalizzare la brava gente con i
suoi film e anche con i suoi
scritti. Conoscevo e amavo in
lui l'uomo fine, delicato, buono. L'amore per sua madre mi
ha sempre commosso. Le sue
poesie in friulano mi sono parse sempre molto belle. Anche
le sue scritture di critica, le ho
molto stimate. C'erano in lui
due poli, molto contrastanti.
La sua tragica fine, ne è stata il
risultato; ma anche la liberazione dal contrasto».
Da qui la decisione di scrivere le tredici liriche in morte di
Pasolini: «Or ora ho scritto alcuni miei poveri versi, per tentare di liberarmi dalla pena
che ho in cuore, provocatami
dall'episodio della sua morte,
dal modo della sua fine. Quel
diciassettenne che non si è accontentato all'abbatterlo, ma
passa con l'automobile sul suo
corpo ancora vivo, per finirlo
del tutto, e lo schiocca e l'uccide, chi era? Che cosa era? Pier
Paolo ha pagato del tutto la
sua torbida passione. Ma troppa gente non lo vorrà dimenticare, e forse non lo potrà, ignorando i suoi doni di poesia. Ci
vorrà del tempo perché lo assolvano dai suoi peccati, che
erano pur sempre anche la condizione tragica della sua vita».
Il moralismo di un uomo nato nell'800 non impedisce a
Biagio Marin di intuire la grandezza del poeta scomparso.