Nei fossili, nelle conchiglie, che egli riuscì a catturare con
estrema precisione, Daguerre non vide una semplice "natura morta" ma la possibilità
di risvegliare il mondo inanimato attraverso la luce. Questo strano intrico di misteri -
di natura, alchimia, leggi ottiche e fisiche - è stato l'evento magico che ha arricchito il
nostro sguardo sul mondo
con un'altra e più estesa visuale che ci permette di registrare il mondo, non per dimenticarlo ma per capirlo
meglio, o semplicemente per
vederlo di
nuovo. Luigi
Ghirri, Niente di nuovo
sotto il sole,
Quodlibet,
pagg. 360.
Figura centrale nel panorama internazionale
della fotografia del secondo Novecento, Luigi
Ghirri non è
stato soltanto
un prolifico
autore d'imma,gini ma anche
un intellettuale tra i più fecondi, curiosi e interroganti,
se non innovativi, di un linguaggio, la fotografia, che
stentava (stenta) a essere riconosciuta come forma d'arte e quindi relegata, come
sembra esserlo tuttora, ai
classici stilemi del documento, di pura mimesi della realtà o al più fortunato cliché
dell'istante decisivo. Quel
momento così caro a Henri
Cartier-Bresson in cui si coglie la ragione
della forma e
della coscienza, ma che ha
contribuito
senza nessuna
ombra di dubbio a uno dei
modelli più duraturi e deleteri per la comprensione della fotografia.
Ovviamente, senza nulla togliere a quell'estetica dell'immagine fotogiornalistica di
cui "l'occhio del secolo" aveva
genialmente contribuito a
creare, permettendoci di
guardare quelle immagini
così perfette da sembrare ciò
che di più irraggiungibile si
potesse ottenere da un piccolo e agevole strumento ottico.
Una fotografia, scrive Ghirri, non è una mera riproduzione, e nemmeno la fotocamera è semplicemente un dispositivo ottico che porta il
mondo fisico a un fermo immagine. Fotografia è un
linguaggio
nel quale la
differenza tra
riproduzione
e interpretazione, comunque subdola,
esiste e solleva un infinito
numero di mondi immaginari. E sebbene gli oggetti sembrino perfettamente descritti
dal nostro sguardo, una volta rappresentati, essi possono tramutarsi in una pagina
bianca di un libro ancora da
scrivere. Il mio tentativo, rimarca Ghirri qualche rigo
più avanti, di vedere ogni cosa che è stata già vista, e di osservarla come se la vedessi
per la prima volta può apparire presuntuoso o utopistico. Ma è ciò che a me interessa di più. La fotografia per
Ghirri, allora, - e senza per
nulla rigettare il "momento
decisivo" che sembra per lui
qualcosa di connaturato e
inevitabile, - è qualcosa di
più intricante ed enigmatico.
Esistenziale ed ermeneutico.
Teoretico. Le suggestioni
delle figure, delle forme, degli oggetti hanno diversi livelli di lettura e ciò che è di
più vero e manifesto in loro è
nlfrpttantn arnhis:run n inafferrabile. Forse, scrive Ghirri, è per questa ragione che
molti, quando scrivono di fotografia, dicono che essa mostra ciò che già conosciamo -
che è un luogo comune. Io
credo che l'asserzione dovrebbe essere corretta e riformulata così: la fotografia mostra sempre ciò che noi pensiamo di conoscere. Pensare
per immagini. Ecco l'assunto
fondamentale di Ghirri. Proprio come scriveva il frate e
filosofo Giordano Bruno:
pensare è speculare con le
immagini. D'altra parte con
Ghirri ci si trova in sostanza
nelle velleità della letteratura, del pensiero filosofico e
dell'arte. Ghirri è un uomo
colto. Le citazioni letterarie,
filosofiche o che riguardano
la pittura sono precise, chiare, inequivocabili e indice di
una cultura profonda e di un
piglio sempre attento, sospeso, ma mai effimero o sprovveduto. Si può facilmente sostenere che il fotografo di
Scandiano abbia sempre fatto coincidere la fotografia vera e propria con la scrittura
sulla fotografia. Che egli abbia fatto della fotografia lo
strumento di una riflessione
lunga e meditativa che lo ha
portato ai vertici del pensiero
contemporaneo e che, allo
stesso tempo, lo ha eretto in
maniera evidente come una
pietra miliare di una cultura
fotografica che non può più
prescindere dalle sue sollecitazioni e dalle sue visioni, siano esse di natura intellettuale che prettamente iconiche o
astratte. Metafisiche. Insensate. Spiazzanti. O, ancora
più essenzialmente, banali.
Le immagini di Ghirri, così
come i suoi scritti, richiedono un supplemento di attenzione, dopodiché esse lasciano sgorgare
tutta la loro
naturalezza ed
effervescenza.
Come se esse
fossero sempre in movimento pur nella loro commovente immobilità e ritrosia.
Scritti e immagini durate un
ventennio, dagli inizi degli
anni settanta fino ai novanta,
e che hanno rivelato al mondo uno spirito, quello di
Ghirri, fatto di osservazione
e di acume straordinario.
Uno degli ultimi pionieri dice
Wim Wenders, e certamente
uno dei più grandi maestri
del ventesimo secolo. Nel volume che qui si presenta, ma
esiste anche una raccolta in
inglese, uscita per Mack nel
2016 con il titolo the Complete Essays 1973-1991, sempre
con l'introduzione e cura di
Francesco Zanot, oltre ai saggi vi si trova una selezione di
interviste rilasciate da Ghirri lungo l'intero arco della
sua carriera. Si tratta, quindi, nell'insieme di un nucleo
di testi che contribuisce in
maniera sostanziale alla letteratura della fotografia in
un momento di vivaci e
straordinari cambiamenti
che riguardano il mondo
dell'arte e lo stesso utilizzo
del mezzo fotografico come
possibilità di conoscenza e
d'interpretazione di un mondo in apparente dissolvimento o in evidente punto di svolta. La fotografia, a questo
punto, non potrebbe essere
altro che la lezione di Ghirri:
l'ambiguità originale. Il silenzio della "a" di "differance" in Derrida. Anche la simulazione. Il buio totale. O
forse la fotografia non è altro
che se stessa. Un infinito mimetismo di luce. Una rimozione della parola. Un linguaggio fisico
fondato sui segni. Il concetto stesso di
presenza del
sé bastante.
Una vera metafisica della mediocrità. Una
parola suggerita. Una prossimità invadente. Qualunque cosa essa sia, la fotografia resta sempre un enigma.
Forse, come scrive Ghirri, è
un enigma che noi abbiamo
accettato come evoluzione
che nessuno è capace di risolvere, ma tant'è, la fotografia,
l'immagine, la realtà non è
ciò che continuamente cerchiamo di rinnovare? Lo stupore originario? O la meraviglia del guardare ogni cosa
daccapo? Che infinita finzione è mai questa che un uomo
debba far uso al meglio dei
suoi occhi per vedere alla maniera di un cieco! Shakespeare citato da Ghirri.