Recensioni / Delfini, il poeta della rabbia che estrae perle dal fango

Nella letteratura talvolta il piano narrativo e quello esistenziale arrivano a coincidere, diventando persino l'uno la ragione dell'altro. In taluni casi l'intrusione nel testo di un dato autobiografico ha generato pagine di valore assoluto. Le poesie della fine del mondo di Antonio Delfini sono una delle raccolte più livide, più amare della letteratura italiana del '900 e possono essere paragonate al Canzoniere di Cecco Angiolieri. Del poeta toscano del '200 conservano infatti la carica emotiva e immaginifica, la virulenza e la spavalderia. In Delfini l'elemento autobiografico diventa determinante per il risultato poetico: il poeta modenese, però, non accetta di percorrere i sentieri della memoria alla ricerca di una soluzione per i grandi dilemmi della vita e della morte, ma privilegia un'indagine nella materia sordida della dimensione più dura della vita: quella della sofferenza, dell'invidia, dell'infelicità, dell'ira, della gelosia e dell'odio per la donna che non ricambia il suo amore. Tutto ciò è stato ampiamente investigato e codificato dalla letteratura, eppure il poeta modenese sembra trarre da questi elementi una linfa nuova, che erompe dal nucleo degli eventi e trasforma il dato fisico in ipotesi metafisica. Ne scaturisce una pagina che raggiunge il sublime dopo aver guadato le paludi del macabro e del sordido.