Recensioni / Il racconto esploratore di probabilità

In uno dei suoi saggi più famosi e importanti, Cibernetica e fantasmi, oggi raccolto in Una pietra sopra, Italo Calvino si interroga sulla «narrativa come processo combinatorio»: in questa conferenza, ovviamente ancora interessante per gli argomenti trattati, Calvino indaga l'uso del linguaggio nei primi insediamenti umani, riconoscendo come la narrazione e il racconto delle storie nascano dall'utilizzo di un numero limitato di parole per costruire nuovi orizzonti narrativi, e constata la sproporzione tra il numero di parole a disposizione dell'uomo, limitate, e le esperienze possibili nel mondo, illimitate. «Il narratore – scrive Calvino – cominciò a profferire parole non perché gli altri gli rispondessero altre prevedibili parole, ma per sperimentare fino a che punto le parole potevano combinarsi l’una con l’altra, generarsi una dall’altra»: il narratore inizia allora a esplorare le possibilità «implicite» del linguaggio, combinando le figure e le azioni da cui venivano fuori poi delle storie in potenza sempre diverse. Ecco che quindi, secondo la concezione di Calvino, la letteratura e le possibilità del racconto si intrecciano sin dai primordi con la combinazione e le permutazioni, mezzi attraverso i quali fuggire dalle maglie limitate del vocabolario in un processo che collega quindi il racconto di una storia alle possibilità, anche matematiche, della sua realizzazione. Calvino fa il nome di Queneau e cita ovviamente l'OuLiPo, l'Officina di Letteratura Potenziale fondata dallo scrittore francese con François Le Lionnais e che ha accolto al suo interno anche Georges Perec, Jacques Roubaud e lo stesso Calvino: questo gruppo di scrittori, lanciati verso la ricerca di strutture e schemi della narrazione, rappresenta forse il caso più classico della relazione tra scienza e scrittura, per le operazioni messe in campo nella scrittura, ma anche per il racconto inteso anche come gioco e possibilità di esperimenti combinatori e probabilistici. Le pratiche narrative dell'OuLiPo sono solo uno dei modi attraverso i quali la letteratura accarezza il mondo scientifico e, proprio a partire da questa esperienza, si possono evidenziare due direzioni di questo rapporto, da una parte quella praticata dal gruppo francese, cioè immaginare il dispiegamento di metodi matematici all'interno del processo di scrittura, dall'altra l'idea che attraverso la letteratura le scienze possano trovare un racconto avvincente per i suoi protagonisti e per le sue teorie. Ma questa è, ovviamente, una distinzione arbitraria e generale perché molti sono anche gli incroci tra queste due traiettorie, per esempio la creazione di vicende d'invenzione, o surreali, che vengono però costruite attraverso l'intreccio di piani complessi che rispondono anche a un sostrato matematico-scientifico, rendendo quasi impossibile distinguere le due origini della scrittura.
E se già quindi questa classificazione si presta a ulteriori distinguo, ma si tratta d'altronde di un'ineluttabilità che adombra ogni fatto letterario, importante è anche la scelta della forma narrativa, con differenze sostanziali e conseguenze diverse tra il romanzo e il racconto. L'impressione è che la forma breve, con la sua capacità di celare non detti, di non svelare tutto e di lasciare uno stato di sospensione nel lettore, risulti particolarmente consona a queste scritture che accarezzano la scienza, come testimonia una tradizione esemplare, che oltre a Queneau comprende, per fare un solo nome, anche Borges: un interesse che questa declinazione del racconto tuttora riscuote nella letteratura contemporanea.
Raymond Queneau è un esempio molto importante per questo discorso: scrittore, poeta, matematico, Queneau inizialmente prende parte al movimento surrealista, ma presto però si allontana da Breton per divergenze rispetto all'esaltazione dell'inconscio e dell'automatismo, pur mantenendo sempre il gusto per la provocazione, per i giochi di parole e per gli aspetti misteriosi del quotidiano. Troppo spesso la critica ha tenuto divisi due dei piani che compongono la sua opera perché se le idee dell'OuLiPo lo hanno portato a sottoporre la sua scrittura a varie contraintes, non si può comunque dire che Queneau non scelga di addentrarsi, seppure in modo ironico, in una ricerca esistenziale e anche metafisica che, come alcuni lettori hanno notato, anticipa le visioni di Sartre e Camus. Questo mi pare interessante perché questi scrittori “matematici” vengono troppo spesso ridotti a autori cervellotici che sperimentano metodi scientifici in letteratura senza alcun interesse ulteriore. Si pensi a un altro autore, Geroges Perec che per esempio elabora una scrittura basata sul lipogramma in La Disparition, un romanzo interamente redatto senza la lettera “e”, dove però non c'è pericolo di tecnicismo virtuosistico gratuito per la gravità della materia, la Shoah e le vicende biografiche dello scrittore. Di Georges Perec Quodlibet ha appena pubblicato una raccolta di testi brevi, Cantatrix sopranica L. e altri scritti scientifici (a cura di Roberta Delbono): oltre al testo iniziale che dà il nome alla raccolta, e che è uno splendido scimmiottamento del metodo e del linguaggio scientifico per descrivere le conseguenze del lancio di pomodori su una cantante d'opera con la dimostrazione del teorema che più pomodori arrivano più le cantanti urlano, si susseguono testi brevi, assimilabili a piccoli racconti, dove Perec immagina un mondo scientifico che non esiste: esemplari entomologici fantasiosi come la “Coscinoscera” o scienziati inesistenti dalle biografie spiritose e possibili come Léon Bourp e Marcel Gotlib, sono ancora una volta la testimonianza della possibilità d'invenzione e di combinazione tra scienza e invenzione che appartengono alla letteratura e che possono essere declinate anche nel racconto fantasioso di natura scientifica.
Da questo punto di vista il libro di Perec è un campione imprescindibile, oltre che rappresentazione plastica delle possibilità dell'OuLiPo, ma la letteratura breve può anche trovare un compromesso tra verità della scienza e finzione della narrazione, ed è quello che accade in uno dei libri che ha fatto maggiormente discutere negli ultimi mesi, Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Benjamìn Labatut (pubblicato da Adelphi con la traduzione di Lisa Topi). Il libro dello scrittore cileno è composto da sei testi che possono essere ridotti alla forma del racconto e ognuno di questi, seppure con sfumature diverse, parte da verità della scienza riguardanti alcune delle maggiori personalità scientifiche del Novecento, materiale su cui si innesta l'invenzione letteraria, con scene di finzione, pensieri, incontri e riflessioni immaginati dall'autore. Quando abbiamo smesso di capire il mondo è quindi anche un libro che sposta le coordinate teoriche della narrativa breve: se volessimo forse fare un esame tecnicamente preciso della natura di queste prose troveremmo forse alcuni spazi bianchi rispetto all'obbedienza al genere, ma questo sta anche probabilmente a testimoniare il tentativo di oltrepassamento di cui lo scrittore vuole farsi portatore. Tra i testi della raccolta, dedicati alla scoperta del blu di Prussia, al rapporto tra scienziati e armi di distruzioni di massa o a scoperte matematiche che provocano incredibili black-out nella mente degli studiosi, ce n'è uno che credo rivesta un'importanza decisiva per questo discorso, quello dedicato al fisico Werner Carl Heisenberg. Il racconto, che dà il titolo alla raccolta, è incentrato sul soggiorno a Helgoland del giovane Heisenberg che, in quell'occasione, inizia il ragionamento che rivoluzionerà il mondo della scienza con le sue imprescindibili scoperte: ma gli incontri e gli eventi che Labatut racconta sono debitori anche di quella fiction senza la quale, a detta dello stesso autore, la letteratura perde molto del suo valore. Se allora ci si volesse ricollegare alle idee di Calvino in Cibernetica e fantasmi, ecco che il libro di Labatut va a inserirsi proprio dentro l'universo di possibilità che si apre alla letteratura: giocando sulle storie e sulle scoperte che hanno segnato il Novecento e con cui ancora la scienza fa i conti, la fiction e il verosimile, spalancano alla letteratura lo stesso inconoscibile che hanno generato queste scoperte.
Questo procedimento probabilmente si compie in maniera decisiva proprio nel racconto breve che con le sue possibilità di lasciare sempre un non-detto decisivo per l'interpretazione non fa che aumentare il ventaglio di probabilità per il lettore, in un gioco a due che già nel momento della scrittura prende in considerazione il fruitore del testo, con la sua lettura e i suoi ragionamenti. Ci sono poi, a differenza di Labatut, dei racconti che invece inventano storie di scienziati bislacchi: se da questo punto di vista inimitabile punto di riferimento sono i brevi ritratti di Juan Rodolfo Wilcock raccolti in Sinagoga degli iconoclasti (dove possiamo trovare il chirurgo Charles Wentworth Littlefield dotato di uno straordinario «potere tromboplastinico» o l'ingegnere Hans Horbing autore di una teoria che vede nell'origine della terra lo sbriciolarsi di una piccola luna), anche autori contemporanei insistono su creazioni letterarie di questo tipo.
Si può pensare per esempio ai racconti di Paolo Albani (tra l'altro membro dell’Oplepo, Opificio di Letteratura Potenziale, versante italiana dell’OuLiPo), autore prolifico e sempre desideroso di sondare i limiti del racconto, della lingua e, quindi, della letteratura, e alla sua raccolta I mattoidi italiani dove ancora una volta vengono trasposti sulla pagine alcuni scienziati bizzarri che nella loro vita hanno sostenuto idee alquanto eccentriche, senza però mai andare in manicomio. Un libro dall'andamento e struttura quasi enciclopedici, in cui nei brevi racconti si possono leggere le idee del linguista Carlo Cetti, desideroso di «smagrire» il dizionario italiano o quelle di Alberto Corva, che invece credeva possibile, nel giro di pochi anni, diffondere la comunicazione attraverso il pensiero. Anche in questo caso Albani prende le misure da uomini realmente vissuti, ma a differenza di Labatut, ovviamente anche per l'eccezionalità bislacca di queste biografie, non c'è troppo bisogno di fiction, perché i racconti sono già di per sé eccezionali e non hanno quindi necessità di un processo narrativo, ma sono comunque ulteriore testimonianza di come la narrativa breve possa offrire uno sfogo a questo tipo di racconto.
Ritornando al racconto su Heisenberg in Quando abbiamo smesso di capire il mondo di Labatut, si può considerare come il miscuglio omogeneo di fiction e verità porti il lettore a instaurare con la storia una relazione anche “fisica”, poiché viene invitato a muoversi all'interno della storia e anche a muovere i suoi pezzi. Ci sono situazioni in cui invece la collaborazione del lettore si fa ancora più concreta: si può pensare per esempio al recente libro di Dario De Marco, Storie che si biforcano (Wojtek edizioni), dove l'autore porta i celebri sentieri che si biforcano a fare un ulteriore passo concreto: viene infatti chiesto al lettore di muovere fisicamente il libro, di ribaltarlo per poter completare le storie che si susseguono nel corso della raccolta, una ventina, e che si sdoppiano proprio a partire da piccoli elementi che ne modificano l'andamento. Il lettore è quindi invitato a intervenire nel flusso del racconto perché queste storie che si biforcano danno al racconto un'ulteriore possibilità: non ci si trova davanti solo a una delle molteplici possibilità che, sempre sulla scia di Calvino, la narrazione offre a chi scrive, ma se ne apre un'altra, ulteriore. Due possibilità su un numero pressoché infinito non è certo un risultato che permette di controllare questo spazio indefinito, ma un po' come nella forma del libro-game (di cui è importante esempio il recente libro di Carlo Mazza Galanti pubblicato da Il Saggiatore, Cosa pensavi di fare? ) al lettore sembrerà di poter perseguire un risultato che, all'apparenza, dipende anche da lui, dalla sua scelta di giocare con lo scrittore e con i suoi racconti. De Marco, così come Alfredo Zucchi nella raccolta edita da Polidoro editore, La memoria dell'uguale, prova a trasferire sulla pagina scritta l'impressione che per ogni scelta che facciamo, per ogni avvenimento che accade ce ne siano altri, innumerevoli, che non accadono e che quindi non riguardano le nostre esistenze e restano solo nell'universo delle possibilità. Umberto Eco in Lector in fabula, sulla scorta degli studi sulla teoria della ricezione di Wolfgang Iser e della cosiddetta “Scuola di Costanza” e prendendo le mosse da un altro suo importante libro sul tema, Opera aperta, indaga proprio come esista una cooperazione tra autore e lettore che influenza in maniera decisiva la fruizione e l'interpretazione del testo: l'attenzione variegata del racconto rispetto all'universo scientifico (ritratti veri o immaginari, racconti che sfidano il lettore a completare le smagliature di senso, il gioco probabilistico e linguistico) mostra proprio come la letteratura breve possa farsi possibile esploratrice di questo universo di probabilità.

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