«È più miracolato che cosa
vera, è più leggenda che realtà. Il
suo nome è antico e semplice: Civita, senza aggettivi e senza altre
specificazioni». Così recita la scritta calligrafica sulla prima foto del
libro di Giovanni Attili (Civita, senza aggettivi e senza altre specificazioni, prefazione di Giorgio Agamben, Quodlibet, pp. 400, euro 32),
che ritrae il Borgo nel 1874. Dice
tutto dello stupore di chi si avvicinava a quel centro. Negli anni
60, come in un quadro del Poussin, l'acrocoro abitato sembrava
un paesaggio d'invenzione; invece lo si raggiungeva con un ponticello, come un'illustrazione di
una fiaba. Articolato in tre parti,
in successione temporale, il libro amplia l'esperienza diretta
di un paese superstite di una storia geologica e umana squadernata, con una magnificenza di
dati e testimonianze che evita la
delusione di un ritorno al vero e
ai suoi souvenir.
Nella prima parte, il dato geologico s'inviluppa nella cronaca
dei disastri. Nel 1695 «un terremoto così gagliardo che diroccò
quasi affatto tutta la città» sancisce l'inizio del declino di Civita,
per parti «inghiottita, sparita nel
nulla». La «Città dal passato superbo, custode gelosa della sua
supremazia morale e di comando, è costretta a rinunciare al
suo primato storico e religioso». E
comincia il romanzo contemporaneo. Il suo nome si fa più aderente
all'etimo latino: è la civitas resistente che non se ne vuole andare
nemmeno quando crolla il ponte
che aveva rimpiazzato la strada
di accesso, sprofondata nel 1922.
A questo punto la storia sgorga
dai racconti. «A quei tempi» c'era miseria e anche felicità, gli
equilibrismi sul ponte rotto, la
luna che regolava le nascite. Il
racconto è denso di vita, di lavoro di campagna, di fame e fatica
smorzate dal canto. Una composizione di una pastorale che procura, in chi legge, non poca «misurata contentezza».
La seconda parte è una «storia
che si nutre di una serie di straordinarie casualità». Astra Zarina è
la figura centrale della rinascita
che comincia quando l'abbandono del Borgo sembra inarrestabile, le casualità sono tante e avvincenti: il viaggio da New York, la
lettera di Berenson su un itinerario tra Montefiascone e Viterbo,
dove l'incantevole Civita è suggerita senza nominarla. La pioggia che all'improvviso fa trovare ad Astra la casa da abitare. Il
suo fascino e talento rendono il
paese unico e speciale. Le foto la
mostrano in abiti originali, e il
volto espressivo, pieno di vita.
Di Astra, architetto e professore
di allieve/i da università statunitensi, l'autore fa un accurato rendiconto: un lavoro che «rimette virtuosamente in circolo una conoscenza prodotta in maniera collaborativa e non predatoria», guidato dalla «rivoluzionaria idea di abbandonare l'ossessione per il nuovo a favore di una risemantizzazione dell'esistente», di un recupero delle tracce fisiche e rituali di
pratiche antiche, svolto con la comunità di cui entra a far parte.
«Astra si muove all'interno di
un campo di riattivazione poetica», in presa diretta. Lontano dalla dimensione del postmoderno che trasforma tutto
in simulacro, e che segna il terzo tempo del romanzo di Civita, quando subentra la bulimia
turistica.
L'autore svolge sui numeri di
visitatori — un milione nel 2019,
su una popolazione di dieci persone — una riflessione importante sul feticismo istillato dal «mercato contraffatto della storia»
che genera desiderio attraverso
l'iconizzazione spettacolare. Sul
congelamento dell'architettura,
dei residenti, dell'immagine sterilizzata di un «quadro vivente».
La parodia della storia, avendo
estromesso il divenire, rende
questo raro Borgo, come tutte le
città turistificate, merce da consumare, in fretta.
Un epilogo pensante di un romanzo con molti punti fermi
per rispondere alla domanda di
Agamben in prefazione: che cosa significa abitare?