Recensioni / Né sovranisti, né globalisti: semplicemente italiani. Anche in filosofia

Ora che il cleavage sovranismo/globalismo (europeismo) sembra essersi esaurito, si può forse cominciare a ragionare con più serenità sui temi dell’identità nazionale e anche della globalizzazione (che è sicuramente ai nostri giorni un dato di fatto).

E lo si può fare anche da una prospettiva particolare, quale è quella della filosofia. Esiste un pensiero specifico alle singole nazioni, comunque si intenda questo concetto; oppure il pensiero è universale, appartenendo all’umanità in quanto tale? Che la risposta a questa domanda non possa essere ricondotta a un aut aut, è evidente: la filosofia è all’un tempo universale, ponendo a tema questioni generalmente umane, e concreta, nascendo in contesti specifici ed essendo in essi radicata.

È in questo senso che si può parlare di una filosofia italiana, e tracciarne anche una storia e farne emergere l’identità. Anche in filosofia l’isolazionismo nazionalistico, ammesso e non concesso che sia possibile, è un disvalore; così come lo è una globalizzazione informata dall’ideologia del globalismo, cioè tendente all’omologazione culturale, ad un pensiero unico e sradicato, in cui il filosofo pretende di parlare oggettivamente fromnowhere (“da nessun luogo”).

È in questo secondo senso che si può affermare che la filosofia non è scienza nel senso in cui lo sono tutte le altre, cioè quelle empiriche. Ed è in questo ordine di idee che si può mettere a tema La tradizione filosofica italiana come fa Corrado Claverini in un suggestivo saggio, con un ricco apparato di note e bibliografia, appena uscito da Quodlibet (pagine 215). È operazione quante altre mai importante perché negli ultimi tempi lo studio dei filosofi italiani del passato, e l’influenza di quelli contemporanei, ha avuto un’impennata notevole un po’ dappertutto nel mondo, ma in particolare nei Paesi anglosassoni: si sono prodotti saggi, libri, traduzioni, convegni.

Tanto che, negli Stati Uniti, dopo la fortuna del pensiero tedesco subito dopo la seconda guerra mondiale (la German Theory soprattutto di ebrei sfuggiti al nazismo come Adorno e Horkeimer), e di quello francese, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso (la French Theory di strutturalisti e poststrutturalisti come Foucault e Derrida), si potrebbe forse, con un certo azzardo, parlare oggi di una stagione dell’Italian Theory. Questa è almeno la tesi di Roberto Esposito, che l’ha sviluppata in un libro uscito dieci anni fa, Pensierovivente, che è a sua volta stato all’origine di numerosi dibattiti e ampia diffusione. Esposito, in verità, preferisce parlare di Italian Thought, proprio per sottolineare il carattere di apertura di un pensiero, quello italiano, che si fa in atto e non si chiude mai in una struttura predeterminata. Che è già un modo di rispondere al problema della sua identità.

E anche, io credo, alla ragione del suo attuale “successo”: le filosofie variamente neopositivistiche sono giunte in qualche modo al capolinea. In verità, Esposito ricongiunge gli sviluppi della filosofia italiana degli ultimi settant’anni a quella storica che parte da autori come Bruno, Campanella, Machiavelli. È un’operazione che presenta due seri problemi: da una parte, per molti aspetti, quel pensiero, soprattutto nel vettore “radicale” che ha avuto particolare successo negli Stati Uniti, non ha molto a che vedere con la nostra tradizione plurisecolare, essendo la sua “eresia” rispetto ai canoni ufficiali solo apparente, ed essendo anzi esso spesso perfettamente integrato nell’egemonia culturale predominante; dall’altra, l’ecumenismo con cui Esposito accoglie nel suo schema le più varie filosofie contemporanee non è in linea con la scelta che egli fa di un’identità precisa per la filosofia italiana del passato, quella che dà appunto il tono all’ Italian Thought e ne fa un pensiero “estroflesso” verso la vita, cioè verso la politica e la storia e non chiuso negli asettici laboratori dei filosofi teorici astratti. Il che è non per una scelta extrafilosofica, ma anch’essa tutta e solo filosofica, come il filosofo napoletano ha magistralmente dimostrato nei suoi scritti.

Insieme a quello di Esposito, Claverini discute nel suo libro altri tre paradigmi interpretativi, cioè altre tre e diversi modi di intendere l’identità filosofica italiana: quello elaborato, a metà circa dell’Ottocento, da Bertrando Spaventa; quello di Giovanni Gentile, che data ai primi anni del Novecento; e infine quello di Eugenio Garin, a cui lo studioso fiorentino ha lavorato nei decenni successivi agli anni Quaranta del secolo scorso e che è oggi riattualizzato dalle ricerche di Michele Ciliberto. Spaventa, tutto impegnato a dare un’identità anche di pensiero al nuovo Stato nazionale (compito che sarà quello proprio anche di Croce e Gentile negli anni del loro sodalizio a “La Critica”), parlò di una “circolazione europea del pensiero italiano”, concetto che venne ripreso con più attenzione filologica e superiore spessore speculativo, e quindi in modo meno schematico, anche da Gentile, che di Spaventa si considerò sempre in qualche modo discepolo (suscitando l’ilarità di Croce, più legato all’altro Spaventa, lo zio Silvio, che sottolineava il suo essere uscito da un convento).

In sostanza, il pensiero moderno sarebbe nato in Italia con Campanella, Bruno e Vico, che sarebbero stati rispettivamente “anticipatori” di Cartesio, Spinoza e Kant. Per Spaventa, uomo del Risorgimento, questo pensiero, sarebbe poi ritornato nel nostro Paese, arricchito delle esperienze europee, proprio ai suoi tempi con Galluppi, Rosmini e Gioberti.

Una prospettiva, quella di Spaventa e Gentile, teleologica, anche se questo tratto non è per sua natura legato all’idealismo, come qualche afferma (il centro di questo pensiero è infatti nella convergenza di io e mondo). Molto più aderente al dato storico è invece il paradigma di Garin, che comunque individua un tratto preciso, e tipicamente umanistico-rinascimentale, che è il particolare timbro del pensiero italiano: il fatto di essere una filosofia civile, “impegnata” nel sociale. Ovviamente non si può qui dar conto di tutte le torsioni e contraddizioni in un discorso quale quello relativo all’Italian Thought, e che Claverini ha il merito di farci vedere quasi accompagnandoci per mano attraverso la conoscenza dei suoi autori.

Molto interessante e condivisibile è anche l’approccio al problema dell’Europa, soprattutto all’esigenza avvertita dall’autore di pensare in modo non omologante l’europeismo (che in questa versione è, o è stato, un brutto calco del globalismo). “In un momento storico in cui – scrive a conclusione del suo volume- l’euroscetticismo è sempre più diffuso, la sfida più grande consiste proprio nel capire come la diversità culturale sia una grande risorsa, piuttosto che un insormontabile ostacolo. In altri termini, occorre tener ferme le rispettive differenze nazionali, non per innalzare muri e barriere, ma per promuovere il dialogo interculturale in una solida unità che non può venire se non dalla cultura”.

Se così è, perché allora continuare a concepire in senso negativo il nazionalismo, facendolo coincidere con la sua perversione novecentesca. Non è stato il nazionalismo democratico e liberale dell’Ottocento, per esempio quello di Mazzini, da Claverini citato e apprezzato, a forgiare i nostri Stati costituzionali? I quali saranno pure in crisi, ma restano il migliore argine alle derive irrazionalistiche. Un piccolo appunto su un libro comunque onesto e ben costruito

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