Recensioni / La sorpresa del mondo

In una intervista del 1982 Luigi Ghirri raccontava che il punto di svolta nella sua vita da geometra fu l’osservazione di una fotografia dell’intero pianeta Terra: «L’immagine della terra vista da lassù mi fece un grande effetto: per la prima volta vedevamo il nostro pianeta dal di fuori, il duplicato della Terra, la rappresentazione della nostra storia. Tutti i film prodotti, le chiese costruite, tutti i libri scritti, i quadri, le foto, le persone: tutto era sintetizzato in quella foto, senza nulla di realmente intelligibile. Fu per me una spinta a percorrere i primi passi nel campo della fotografia» (Ghirri 2021, p. 266). Ecco il punto, che ricorre molto spesso in questi testi, il tema del “fuori”. Ghirri, in particolare, si chiede a quali condizioni il “fuori” possa accadere, e, in particolare, in che modo il “fuori” possa mostrarsi in una fotografia. Ma che cos’è il fuori? È ciò che la rappresentazione non riesce a catturare, è la sorpresa che «fa buco», come dice Lacan, nel tessuto confortevole del simbolico. Il paradosso del reale è che se è una sorpresa non può, evidentemente, essere programmato in anticipo; tuttavia per Ghirri la fotografia, che per lui è una forma di “conoscenza”, è una tecnica che ha come principale scopo costruire una situazione artificiale (l’inquadratura, la messa a fuoco, la luce, il colore) che permetta al reale di apparire per conto suo: «La fotografia, con la sua indeterminatezza, diventa così soggetto privilegiato per poter uscire dal simbolico delle rappresentazioni definite» (ivi, p. 30).

La fotografia sarebbe allora un procedimento artificiale fatto apposta per permettere al reale di mostrarsi, ossia per mostrare l’incompletezza dello stesso apparato simbolico con cui, in fondo, non cerchiamo di fare altro che allontanare da noi proprio l’esperienza del reale. Perché il reale – nonostante tutte le chiacchiere dei realisti – è insopportabile. Infatti il reale è quello della morte. Ecco allora che cosa ci fanno vedere le fotografie di Ghirri, il reale che buca la realtà: «La fotografia deve allora tentare di squarciare il muro percettivo che ci accompagna» (ivi, p. 312). In realtà noi stessi siamo quel “muro percettivo”. Un muro che ci protegge, appunto, dal reale. Per Ghirri la fotografia, al contrario, è un modo per permettere al “fuori” – come la Terra vista dalla Luna – di attraversarlo senza però lasciarsene atterrire. «Il mondo», dice in un’altra intervista del 1990, «da abitabile e conoscibile è diventato di colpo sconosciuto. Una mutazione ha cambiato impercettibilmente il suo volto, come in un film di fantascienza. Grandi narrazioni epiche non sono più possibili. C’è un’aria museale, un’inquietante grandiosità, un’anestesia dello sguardo dovuta a un eccesso di descrizione. Si è verificato una specie di baratto fra precisione e profondità» (ibidem). La fotografia, per Ghirri, fa saltare per aria quell’“aria museale”, il già visto cinico che ci fa ripetere che non ci sono più sorprese, che tutto è già stato visto. Al contrario, per Ghirri «la fotografia sembra ricordarci che non c’è niente di antico sotto il sole» (ivi, p. 306). Il nuovo, cioè il reale, continua ad accadere. La fotografia non teme il confronto con il nuovo, cioè con il reale.

È per questa ragione, forse, che le fotografie di Ghirri sono contemporaneamente così “classiche”, così antiche appunto, ma anche così nuove, così reali. Senza appunto essere mai realistiche. Piuttosto il movente di queste foto, ammesso che ve ne sia uno, è «lavorare come se ci si trovasse in uno stato di “necessità”, in un modo che potrei definire etico» (ibidem). Ma attenzione, “etico” per Ghirri non vuol dire giusto, corretto, e tantomeno positivo. L’etica ha a che fare con lo sforzo di lasciare spazio alle cose, al loro intrinseco reale, a rispettarle: una fotografia è ben fatta, e quindi appunto etica, se cerca di «vedere come se fosse la prima e l’ultima volta» (ibidem). Ossia come potrebbe vedere chi non ha mai visto prima l’oggetto fotografato, qualcuno che non ha a disposizione un nome per nominarlo o un modello a cui riportarlo: è lo sguardo di un bambino, di un animale, o appunto di un artista: «Recuperare lo sguardo adolescenziale […], nel gesto naturale dello stare al mondo, che si meraviglia anche solo di fronte al miracolo della luce» (ivi, p. 313). Così la fotografia ci permette, se siamo abbastanza discreti da lasciare la voce alla cosa, di vedere qualcosa come se nessuno l’avesse mai vista prima. O anche come si guarda qualcosa che non vedremo mai più. Cioè vederla senza subito accantonare lo stupore per quel che vediamo, ma anche con la tenerezza e la partecipazione con cui osserviamo qualcosa che sappiamo mai più rivedremo.

In effetti quella di Ghirri è una fotografia dell’attenzione distratta, potremmo dire, così attenta alla cosa da perderla di vista: solo in questo modo, infatti, la cosa non sarà soverchiata da quello che già sappiamo o crediamo di sapere su di essa. Ecco perché, ancora, si tratta di una fotografia sospesa fra «rilevazione e rivelazione» (ibidem), cioè fra osservazione dettagliata (è lo sguardo dello scienziato) e manifestazione miracolosa del mondo (questo invece è lo sguardo del credente), in cui questo impersonalmente e fortunosamente si rivela. Si chiarisce, allora, il senso “metafisico” delle fotografie di Ghirri; non è il tentativo di ritrarre “fedelmente” la realtà, che ovviamente nessun mezzo artificioso potrà mai riprendere (quella che vediamo non è la Terra, ma un artefatto semio-tecnologico che istituisce un oggetto che chiamiamo “Terra”), piuttosto cercare di costruire una realtà “di secondo grado”» (ivi, p. 35). Il mondo, come diceva più sopra lo stesso Ghirri, ci sfugge (e mai come al tempo del COVID-19 l’abbiamo compreso), ossia ci sfugge il reale del mondo. Il fotografo, almeno il fotografo “etico” alla Ghirri, lavora non per darci una rappresentazione della realtà, quanto piuttosto per mostrarci quanto anche la fotografia più banale sia artificiosa, cioè quanto poco reale sia la realtà: «La fotografia è già surreale, sempre, nella sua variazione, nella sovrapposizione di più piani, nel suo essere immagine conscia (?), e inconscia (?) del reale cancellato» (ivi, p. 36).

Ma in che modo, allora, il fotografo può aiutarci ad entrare in contatto con il reale oltre e malgrado l’opposizione della realtà? Si tratta intanto di lavorare «alla distruzione dell’esperienza diretta» (ivi, p. 35), che proprio perché presume d’essere diretta è lontanissima dal reale del mondo. Non c’è più nulla di diretto e immediato nel nostro sguardo, e questo vuol dire che il reale non ha niente a che fare con la realtà conosciuta e vista. Tuttavia, e qui comincia il lavoro di Ghirri, questo non significa rinunciare al reale, al contrario, significa sapere che questo reale si nasconde (la realtà è l’occultamento del reale), e che per superare la sua ritrosia a mostrarsi occorre un lavoro paziente, attento, discreto. Solo in questo modo si apre uno spazio per «l’irruzione della possibilità di una sorpresa all’interno del quotidiano» (ivi, p. 336). Per questa ragione a Ghirri piaceva così tanto Giorgio Morandi, il pittore che come lui cercava il reale nella realtà di una bottiglia e di un taglio di luce, ossia il pittore che cerca la sorpresa del quotidiano: «Morandi non ha usato altra materia che la normalità: è tornato continuamente a ridipingere le stesse semplicissime bottiglie, bicchieri, vasi. Ho cercato di imparare la stessa essenzialità. Il tempo è un elemento importante, la ripetizione anche, per la fotografia. Morandi aveva scoperto che anche le cose hanno una loro voce: bisogna mettere in disparte la voglia di trasformare e ascoltare questa lingua silenziosa» (ivi, p. 31).

Una “lingua silenziosa” che non ha niente da dire, ovviamente, che anzi non sa che farsene di parole e discorsi, perché è la realtà che è fatta di linguaggio, mentre il reale è senza parole, senza senso, senza alcuna spiegazione. Per questo stesso motivo il reale appare inatteso, o meglio, il reale non è altro che «questa irripetibile apparizione» (ivi, p. 313). La poetica di Ghirri, in fondo, si riduce a questo esercizio di discrezione, a «lavorare con leggerezza e trasparenza e senza alcun marchio di fabbrica» (ivi, p. 338), cioè senza aggiungere l’ingombrante presenza del fotografo. «So benissimo», aggiunge subito dopo per evitare ogni equivoco realista, «che l’immagine fotografica non è la realtà, ma l’osservatore, nel momento in cui guarda una fotografia inevitabilmente viene richiamato alla realtà fotografata» (ibidem). Basta questo richiamo discreto e il reale, forse, apparirà. Per questo, infine, quello che conta non è tanto guardare bensì «ri-guardare» (ivi, p. 340). È solo nella ripetizione, infatti, che appare il nuovo. Il reale del mondo, semplicemente.

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