Recensioni / Quando le ombre si staccano dal muro

accusa più molle che viene rivolta ai poeti dialettali è di rivolgersi a un mondo che va via via scomparendo. Al contrario, il rozzo fratello maggiore della lingua italiana semplifica i giochi, guarda al futuro, serve su un piatto d'argento la soluzione migliore quando le cose faticano a chiamarsi col proprio nome. Un idioma come trammammuro resterà sempre più diretto ed esplicativo a confronto del pallido ascensore. Quodlibet si inventa una collana, la chiama Ardilut (nome friulano della valeriana selvatica) e sotto la direzione di Agamben porta in libreria ottimi esempi di poesia dialettale. Se i primi due nomi, Pasolini e Zanzotto, li facciamo subito nostri e li rileggiamo con piacere, è Francesco Giusti la vera novità, l'asso lucente nella manica della giacca. Poeta nato a Venezia nel 1952, muove tutt'oggi i passi in una lingua italo-veneziana da una parte così melliflua e untuosa (tanto viscida da sfuggire alla poesia canonizzata), dall'altra così materica e tangibile. Non è un caso che Pier Franco Uliana la definisca una lingua "amniotica" e "anguillare". La raccolta Quando le ombre si staccano dal muro permette a un pubblico più ampio di avvicinarsi ad un poeta molto particolare. I versi sembrano essere stati ritrovati tra i relitti di una celebre esposizione di Damien Hirst. Si è davanti ad un mondo acquatico, prima autunnale, poi invernale - quanta "neve" è presente in questa raccolta, quanti "dicembre" vi sono - che si apre e si dischiude per volontà dell'autore. "Si tace e si dice, si dice e si tace, si tace e si tace, si dice e si dice" scrive Giusti all'inizio della sezione "Lenga co' lengua". Le tre parti all'interno del libro prendono vita aggettivo dopo aggettivo, segno di interpunzione dopo segno di interpunzione in una meccanica che sembra essere oscura solo a una superficiale lettura. Giusti si autotraduce, prima dal dialetto all'italiano e poi dall'italiano al dialetto. "Tremano le cose a pensare quello che sono, a quello che sarebbero se al contrario non fossero", scrive, o ancora "impantanarsi nel silenzio di un non dire e dirlo, parlarne con te e te per fare che anche questo adesso diventi nel tacere un dire". Come scrive Agamben, la lingua del poeta veneziano si pone nel suo "asintattismo" esclamativo, in cui la "coordinazione grammaticale è a tal punto interrotta, forzata da incisi, esclamazioni, interrogativi (...) che la comprensione - che pure immancabilmente avviene - ha del miracolo". Nel corso del Novecento, in poesia, si è assistito ad un recupero significativo del "dialetto". Si pensi a Loi, Tessa e Raffaello Baldini, il Beckett romagnolo. Il Veneto, in particolare, sia in poesia che in prosa, non ha mai smesso di donarci sorprese, da Bressan a Segre, da Cappello a Permunian; ben vengano, dunque, queste riscoperte poetiche in grado di disorientarci, di "tenere in vita orizzontale, in giro per casa, il ricordo"

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