Viaggiando da Pisa a Roma in giornata,
ho visitato la retrospettiva di Jim Dine
al Palazzo delle Esposizioni verso la fine
del febbraio 2020: lo scoppio della pandemia ne ha poi fatto una delle poche
mostre viste da molti mesi a questa parte. Anche per questo il ricordo è ancora
vivido come di un’occasione imperdibile: per il calibro di molte delle opere raccolte (provenienti da una donazione di
Dine stesso al Centre Pompidou) e per
la generale rarità di mostre a lui dedicate. Infatti, il catalogo curato da Daniela Lancioni è di fatto il maggiore contributo nella bibliografia sull’artista almeno nell’ultima decade. Se si saltano mostre di dimensioni limitate, e per lo più
di grafica (e letta a parte quella sorta di
«diario d’artista» che è Hot Dream, uscito in 52 volumetti nel 2008), lo sforzo retrospettivo si riallaccia direttamente alla
mostra «canonica» del 1999 organizzata
da Germano Celant al Guggenheim di
New York (ma dedicata solo agli anni tra
1959 e 1969). Un confronto con la critica
italiana che varrebbe anche come ipotetica traccia nella carriera di Dine, dalla
prima personale europea alla milanese
Galleria dell’Ariete nel 1962, alla Biennale «Pop» del 1964, fino ai ritratti di Pinocchio negli anni Novanta.
Nella sequenza dei testi in catalogo, il racconto della mostra compare per ultimo, ad introdurre le buone
riproduzioni delle 72 opere esposte.
La scrittura, molto misurata, svolge il
lungo racconto dell’opera di Dine, dalla fondamentale esperienza negli happening alla fine degli anni Cinquanta
alla scultura monumentale degli ultimi anni, una sequenza per niente lineare, e intrecciata in corsi e ricorsi.
Ricche sono soprattutto le aperture ai
contesti culturali, per esempio all’esistenzialismo filosofico e letterario per
le «facce» che si moltiplicano nei primi
dipinti (Lancioni evoca Merleau-Ponty,
Sartre, Camus, ma anche Henry Miller
e Artaud). La descrizione dell’attenzione di Dine per il lavoro di altri artisti è
reticente: ad esempio, il nome di Rauschenberg compare solo di sfuggita, anche nel resto del catalogo; e al contrario appare uno dei diretti interlocutori
per le strategie pittoriche nelle prime
opere con i «tools» (1961-1962). Timidi
anche i cenni alla sua fortuna, che in
Italia è ingente, e passava non solo attraverso i quadri ma anche sulla grafica
esposta con continuità per tutti gli anni
Settanta (del resto la mostra non puntava sui disegni, le litografie e le incisioni, raccolti in una «galleria» di opere
su carta senz’ordine cronologico o tecnico). Nell’oculata scelta dei termini e
nel ricorso a tante testimonianze dirette dell’artista, il testo restituisce bene la
sua speciale sensibilità di pittore; sono
infine lucidi e preziosi i passaggi solitamente meno evidenziati della sua attività (per esempio le note sulla fusione a staffa per le sculture del 1965-67).
Il racconto in prima persona degli
happening di Dine e la raccolta pressoché completa delle fotografie che li documentano precedono utilmente il saggio dedicato a questo tema, firmato da
Francesco Guzzetti. Intitolato come un
panel di discussione cui Dine partecipò
già nel 1959 alla Judson Gallery, New
Uses of the Human Image, il testo è davvero equilibrato nell’organizzare i molti
riferimenti teorici insieme con osservazioni puntuali e stimolanti sulle opere,
che in questo caso devono essere rievocate dal racconto più che dalle immagini superstiti. Brillante è l’attenzione di
Guzzetti a tre aspetti della questione: la
dimensione geografica e sociale del luogo in cui gli happening hanno avuto luogo, cioè l’area multiculturale e dimessa
di Downtown New York; il ruolo determinante dei fotografi che hanno documentato le azioni, diffondendone un’immagine precisa sui rotocalchi internazionali; infine, il rapporto con la pittura
e soprattutto con il collage, direttamente
inclusi o evocati in termini metaforici.
Se il taglio tematico era sostenuto
dalla circoscrizione cronologica degli
happening ai primi anni dell’attività di
Dine, gli altri temi trattati nel catalogo,
cioè le parole (Annalisa Rimmaudo) e
gli oggetti (Claudio Zambianchi), si dilatano a tutta la sterminata produzione
dell’artista, e rischiano di appiattirsi se
pensati senza soluzione di continuità.
Perciò, nel primo saggio, è decisivo sottolineare il carattere rituale e simbolico
delle scritte nell’happening Car Crash in
contrasto con le tautologie delle parole nei dipinti a partire dal cruciale Tattoo (1961). Pure diverso è il rapporto
tra scrittura e memoria nei Name Paintings del 1968-69, legati forse alla stratificazione della psicoanalisi; e di fatto
manca ancora uno studio della produzione poetica di Dine calibrato insieme
con le sue modalità espressione visiva.
Zambianchi gioca su un bel prestito da
L’invention du quotidien del sociologo
Michel de Certeau per leggere la «reinvenzione» di oggetti standardizzati nelle opere di Dine, e le loro implicazioni
con l’autore e l’osservatore. Al di là di
qualche ridondanza con i gli altri due
saggi, e la curiosa assenza degli oggetti più legati alla tradizione pittorica (in
particolare le palettes, in una serie cruciale verso il 1964), nel testo spicca il riferimento a un precedente sinora molto
sottovalutato, cioè il trompe l’oeil americano del XIX secolo, che illumina sul
gioco di illusione e realtà che organizza
gli oggetti sulle tele di Dine.
Va ricordata infine la dettagliata
biografia a cura di Paola Bonani, che
come tutto il volume si pone come il
riferimento più aggiornato e accurato sulla vita e l’opera di Jim Dine.