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Si le Droit n’utilisait pas le temps et se réduisait à des actes instantanés, il ne serait rien», scrive Maurice Hauriou, «sa grandeur est qu’il incorpore le temps à la vie sociale». La citazione del celebre giurista, uno dei fondatori del diritto pubblico francese moderno, esprime bene il nucleo di fondo che sta al cuore del libro di Sandro Chignola, uscito recentemente nella collana Quodlibet Ius Ricerche. Il volume si articola in quattro capitoli, il primo è dedicato a Ravaisson («Une activité obscure… Ravaisson: sull’abitudine»); il secondo e il terzo a Tarde («Tarde. Uno»; «Tarde. Due») e l’ultimo, appunto, ad Hauriou («Forma dat esse rei: Hauriou»). Il diritto, dice l’autore nell’Introduzione, è una risorsa, «un’istituzione vivente» aperta all’uso, e l’istituirsi dei rapporti sociali una dinamica ambivalente che corrisponde all’ambivalenza della natura umana. Dunque, «un diritto vivente è una politica immanente all’azione: il ritmo di composizione di singolarità ed eventi in pratiche moltitudinarie di verifica del limite delle forme sperimentate della socializzazione» (p. 14). Abitudine, ripetizione, istituzione – Ravaisson, Tarde, Hauriou – definiscono così altrettante strutture ambivalenti: in questi autori «il negativo» (abitudinarietà, serialità, potere) non è dialetticamente ‘tolto’ o abolito in vista di un’irenica visione della natura umana. La vita piuttosto, nei tre casi presi in esame, «produce la propria regolazione in forza della potenza morfogenetica e trasformativa che le pertiene» (p. 12). Il primo capitolo svolge in questo senso una lettura acuminata di De l’habitude di Félix Ravaisson, opera del 1838 ma la cui influenza sulla filosofia francese arriva fino a Bergson, Merleau-Ponty e Deleuze. Il testo in questione «traccia lo scriversi di un concetto» (p. 16), di cui Chignola mostra tutta la fecondità.
Non è la passività a caratterizzare per Ravaisson come suo nucleo più proprio la sensazione, quanto l’«activité obscure» che l’attraversa e che disabilita il codice secondo il quale essa viene tradizionalmente pensata (p. 22). Un movimento che viene ripetuto tende a farsi involontario e tuttavia questo non concerne l’attenuazione della volontà, ma l’elemento apparentemente passivo in cui il movimento si attua e al cui interno si sviluppa una sorta di «activité secrète». La distinzione di attività e passività viene così destituita. L’abitudine segna l’irruzione di una «spontanéité irréfléchie» il cui statuto problematico si tratta, per Ravaisson, di pensare filosoficamente. Di qui la necessità del confronto con Aristotele e con la nozione di hexis, che il latino traduce con habitudo. Il termine deriva dal verbo «avere», sia in latino che in greco, e indica l’habitus corporis, il modo d’essere di una cosa. In Ravaisson, una disposizione costante può darsi solo là dove si produce la contrazione di una ripetizione in grado di assegnare le forze elementari ad un equilibrio. Gli strati dell’essere sono contratti in un habitus secondo la forma temporale di un’immediatezza, ma questa contrazione mantiene come proprio fondo il molteplice puro delle forze che nell’habitus vengono contratte. Sviluppare un’abitudine significa, allora, mantenere una relazione costitutiva con la temporalità dell’atto che induce il mutamento stesso «come qualcosa di permanente» (p. 24). Un’abitudine presuppone un mutamento nella disposizione di ciò in cui il cambiamento si determina. Ravaisson articola il suo argomento muovendo da un’originaria matrice aristotelica, come sottolinea Chignola (p. 27). Una hexis è un modo d’essere considerato da un punto di vista statico, in Aristotele, il risultato del movimento è il definirsi di una disposizione, il determinarsi di un habitus, di un’abitudine che è una proprietà o un possesso. Una hexis definisce, perciò, una predisposizione dinamica all’azione per effetto di quella che può essere definita una ritenzione temporale, in essa dunque si conserva una dinamica, una relazione. All’abitudine pertiene una forma particolare di movimento, l’abitudine definisce allora il grado più alto della potenza, «quello nel quale un virtuale si distende, determina la propria traiettoria come il suo possesso e la hexis che gli corrisponde può essere messa in movimento» (p. 30). È solo nell’uso, nel ripetersi delle dinamiche che segnano l’abitudine, che la potenza si attua come un’energheia o un’attività: «au delà de la possession il y a l’usage; au delà de l’habitude l’action», dice Ravaisson. «L’habitude se révèle comme spontanéité dans la régularité des périodes». Un movimento spontaneo, commenta Chignola, quello dell’abitudine, «che ritma l’attuarsi, nel movimento e nel passaggio, della temporalità della vita come durata e come ripetizione» (p. 33).
Pensare la vita, e cioè l’abitudine, significa per Ravaisson pensare il cambiamento, la metamorfosi, a partire dalla sequenza periodica che introduce l’elemento della spontaneità come ritmo del vivente. Con Aristotele, Ravaisson pensa che l’essere si dica in molti modi e che l’unità sostanziale dell’essere si rifletta nella differenza delle categorie. Pensare metodologicamente l’abitudine significa, sottolinea Chignola, pensare la continuità dell’essere nella natura oltre la serie fenomenica delle sue differenti manifestazioni, per aderire alla variazione che siamo, nella variazione universale delle cose (p. 48). L’abitudine è allora il metodo grazie al quale il pensiero si distende nelle infinite pieghe della natura: «così è per la morale o per il costume, seconda natura, hexis, nella quale il vivente è alla propria libera variazione come alla tendenza a perseverare in quella particolare forma dell’atto imperfetto che costituisce la storicità dell’essere» (p. 49). Una politica ha origine, osserva Chignola, nell’habitus «con il quale abitiamo il corpo che siamo; con la vita che usiamo» (p. 50). Il corpo contrae una ripetizione e la ripete verso altri corpi, altre ripetizioni, nella modulazione che riceve e che ripete. Nella sociologia di Tarde Chignola ritrova questo stesso movimento di pensiero, nell’imitazione tardeana lavora una particolare formula causale che è assunta come radicalmente sottratta al determinismo. Essa esprime un’azione a distanza: «sans avoir besoin de se déplacer dans le sens de la propagation de leurs exemples», gli uomini agiscono continuamente gli uni sugli altri a delle distanze indefinite. L’imitazione esprime la forma di un rapporto dinamico, trasversale, fatto della cooperazione di tutti gli agenti attraverso la quale essa si trasmette, e la cui segnatura è assegnata ai punti nodali in cui essa si addensa, si biforca, incontra quella della «découverte» o dell’invenzione, cioè la propria variazione. La pulsazione ininterrotta per mezzo della quale ogni monade, inventando la propria sintesi, ripetendola e, dunque, variandola, appropria se stessa e il mondo. Il nome della ripetizione sul piano individuale è abitudine (p. 97). Si intende, così, il senso complessivo della fondazione neo-monadologica della scienza sociale tardeana. Da un lato – è il punto centrale della brillante ricostruzione offerta da Chignola –, per mezzo di essa l’analisi dei fenomeni sociali può essere sottratta all’altrimenti necessaria imputazione a supporti (individui, gruppi, istituzioni) che proprio perché dati per «reali» obbligherebbero a cristallizzare relazioni e rapporti che vanno sempre pensati, invece, come dinamiche prese in costanti e irreversibili processi di trasformazione. Dall’altro, pensare il «possesso» di un ente come la soglia minima della sua inter-azione con il «milieu» al quale esso appartiene, e quindi con tutte le altre forme dell’agire implicate nella sua stessa esistenza, significa rendere effettualmente operativo il punto di vista sociologico universale che Tarde evoca nei termini di un’interpsicologia in grado di mostrare il riferimento delle scienze sociali alle scienze della natura, liberandolo dall’ingenua, tradizionale identificazione tra società e organismo (p. 88).
È contro il ‘momento hobbesiano’ della sociologia, e per la decostruzione del moderno concetto di politico, che Tarde lavora. In Hobbes, sottolinea Chignola, è nella persona rappresentativa che si condensa l’immagine del popolo per mezzo di chi ne rappresenta unità e volontà collettiva. Il popolo agisce o vuole solo per mezzo di chi lo impersona, per mezzo cioè del dispositivo che lo maschera, caricandosi dell’imputazione complessiva delle azioni e delle passioni che sterilizza sul piano societario. La società, che il sovrano rende in questo caso possibile, è in realtà una società politicamente indigente, astratta, resa effettuale solo per mezzo di rapporti di dominio che, procedendo dall’alto verso il basso e monopolizzando l’impiego della forza, la attraversano e la irretiscono (p. 101). La «fotografia composita» che Tarde oppone a questa «macchina di personalizzazione» è invece offerta come «synthèse anonyme», paradossale figura che nomina un popolo, una società, attraverso la sua anonimizzazione, sul limite tracciato dalla circolazione degli esempi che essa riceve dall’ambiente. Questo processo caratterizza, in Tarde, l’irresistibile evoluzione che espande indefinitamente il vinculum juris. Non solo nella singola società, ma con l’ampliarsi dei circuiti imitativi e comunicativi, nel processo di scambio che si allarga e che si intensifica tra i popoli e le culture. Questa evoluzione giuridica non può essere sussunta al modello contrattuale. Il vinculum juris, scrive Tarde, «est une coercition qui se fonde sur une cohésion sociale et une traction sympathethique». In questa prospettiva, proprio allo scopo di rilevare un senso molto più ampio e positivo del diritto come «droit vivant», diritto vivente (il sintagma che dà il titolo al libro di Chignola) immediatamente connesso con la potenza associativa degli «égoïsmes sympathisants» che Tarde trascrive dal fondamento monadologico della sua sociologia, si tratta di decostruire la struttura contrattuale del diritto che la cultura occidentale assume come immediata, naturale, come formula universale dell’obbligazione (p. 153). Quello che Tarde chiama «droit réel et vivant» va inteso allora come un «ensemble d’habitudes». Non solo leggi e istituzioni non vanno intese come strutture coercitive o limiti all’azione, ma esse vanno pensate come risorse a disposizione dell’utilizzo individuale e come veicoli per l’incremento delle possibilità espressive di soggetti singolari e collettivi. Ciò che l’abitudine rende possibile è il consumarsi dell’impulso meccanico iniziale che caratterizza la ripetizione, osserva Chignola. Nel caso del diritto, il consumarsi dell’esteriorità del comando e l’interiorizzarsi delle regolarità che esso rende attuabili, e con il cui impiego il soggetto espande le proprie potenzialità. L’ambivalenza della nozione di diritto viene risolta da Tarde con il riferimento a quella particolare forma di ripetizione che è l’abitudine, l’habitus che, come in Ravaisson, ha a che fare con l’habere e il «possesso». Che il diritto «vivente» sia vissuto come un’abitudine non implica in Tarde la meccanica routinizzazione delle sue procedure. Ciò che entra in questione è piuttosto la trasformazione, resa possibile dalla ripetizione rispetto all’agente e cioè rispetto allo stesso soggetto in esse coinvolto.
Sarà perciò proprio il Tarde di Les lois de l’imitation e di Les transformations du droit, «il grimaldello messo al lavoro» (p. 168) da Hauriou per valorizzare una storia delle istituzioni fondata sull’idea di morfogenesi, sull’idea cioè di una realtà fluida, mobile, vivente, che si trasforma insieme alle dinamiche che ne sottendono i processi, non una ‘cosa’ perché vivente è la «materia sociale» di cui si tratta qui. È infatti nel quarto e conclusivo capitolo del suo libro che Chignola sviluppa originalmente questo tema, che sta al centro dell’istituzionalismo di Hauriou. Il diritto presuppone l’attività sociale e la riconduce all’interazione di volontà. Ma queste volontà soggettive sono costituite come figure che ricalcano delle strutture oggettive che definiscono la «trama sociale». Sul piano fenomenico, che riguarda il diritto, la realizzazione di un agire collettivo si produce per Hauriou attraverso la realtà del gruppo, e la volontà comune che si esprime nell’azione collettiva passa all’atto permettendo la riproduzione del gruppo stesso (pp. 181-182). Il processo della «solidarietà rappresentativa», nel quale il movimento delle energie sociali produce il proprio orientamento comune, non può quindi essere confuso con il processo di unificazione del contratto. Se le funzioni «agglutinanti» del potere innescano adesioni successive e se queste adesioni soggettive al corpo collettivo sono in grado di mantenere unito il gruppo secernendo autonomamente le forme della propria regolazione, allora è l’intero diritto pubblico che a questo punto deve essere riformulato. Non sarà lo Stato a costruire verticalmente il sistema dei rapporti irretito dalle norme che da lui promanano, esso manterrà piuttosto una funzione ‘amministrativa’ rispetto a processi di istituzionalizzazione che si determinano del tutto indipendentemente dalla sua volontà (p. 187). Lo Stato, «institution des institutions», si istituisce in continuità con i processi di istituzionalizzazione che attraversano il corpo collettivo della Nazione, mentre la Nazione viene assunta come un campo energetico attraversato da forze autonome. Si tratta di un punto decisivo, osserva Chignola. L’istituzione assume qui un ruolo complesso. Da un lato essa è il perno sul quale ruota un pluralismo istituente, dall’altro è il modello realizzato dal diritto pubblico dello Stato di un pluralismo istituito. Il diritto sarà da concepire come il mezzo del continuo espandersi dei cicli della socializzazione, la grammatica a disposizione per la costante giuridificazione del vinculum in cui si attua la potenza di relazioni che essi esprimono. Lo Stato così non si pone più come personificazione giuridica della Nazione, ma piuttosto come un regime di equilibri ordinati nei quali si dà, nella sua continua mobilità e riproduzione, l’assetto complessivo della Nazione. Quella che Hauriou contesta è dunque la metafisica dell’unità propria del moderno concetto di sovranità. La Nazione «non coincide con il governo, perché non si riflette specularmente in esso in base al principio di identità implicito nel meccanismo della autorizzazione rappresentativa» (p. 192). La personalizzazione dello Stato come espressione della sovranità della Nazione è superata da Hauriou «reinstallando il dualismo che la moderna ‘metafisica’ dell’unità viene a soppiantare»: e cioè «l’existence des deux forces en présence» come matrice primaria di un equilibrio dinamico. La Nazione non governa, è governata. E tuttavia, scrive Chignola valorizzando questo dualismo, «essa esercita a sua volta un potere sul governo – la Nazione sussiste in presenza, di fronte a esso – prestando o negando l’assenso del quale il governo ha bisogno, non solo per legittimare la propria azione, ma per poterla realizzare» (pp. 193-194). Lo Stato diventa «cosa viva e attiva» e ciò che Hauriou mobilita con l’analisi istituzionale è «il punto di vista delle cose» (p. 214). Così facendo, egli riorienta il diritto pubblico e permette di concepire lo Stato come una «fondazione», cioè come un «insieme di cose attive», e di mettere in luce, conclude Chignola, «il lavoro di montaggio normativo, autentica prassi istituente sedimentata in regolarità, procedure, manifestazioni continue di assenso, che la tradizionale nozione di Stato-persona oblitera o nasconde» (p. 215).