«Forse realizzare a Milano un lavoro di questo tipo sarebbe
stato più difficile, a livello di
relazioni è una città complessa, Bologna è più aperta. E poi
mi hanno lascato totale libertà». Le fotografie di Allegra
Martin sono state esposte alla
Triennale di Milano e alla
Biennale Architettura di Venezia solo per citare i luoghi più
celebri. Le sue ultime opere
fanno parte di Mille case per
Bologna (edito da Quodlibet,
pp- 131). Il libro — curato da
Marco Guerzoni, urbanista
che si occupa di politiche abitative del Comune — racconta
anche attraverso le immagini
le questioni della casa, dell'abitare e delle politiche portate avanti dal Comune. Paola
De Pietri ha raccontato l'ex clinica Beretta e l'ex xm24. Luoghi che, dopo una lunga battaglia, torneranno a vivere
con l'edilizia pubblica. Fabio
Mantovani ha guardato alla
storia della Bolognina. Martin
ha interrogato i concetti di
popolo, identità e cittadinanza tra gli abitanti di via Gandusio, altro spazio con un
passato conflittuale, e tra gli
studenti universitari dei progetti di co-housing. «Mi interessa molto il tema dell'abitare contemporaneo — dice
Martin che è laureata in architettura — Credo che la fotografia sia lo strumento privilegiato di indagine per raccontare le connessioni dei
luoghi. La dimensione politica dell'abitare, di partecipare
alla vita urbana, di fare rete e
instaurare relazioni».
In che modo ha deciso di
lavorare?
«Facendo una sequenza di
ciascun abitante ritratto nel
suo angolo di casa preferito,
quello che lo rappresenta al
meglio. Nel caso degli studenti sono i letti, perché vivono in appartamenti piccoli e
gli oggetti sopra il letto raccontano le loro passioni o il
luogo da dove vengono. L'intenzione era di entrare in
punta di piedi a casa delle
persone.
Cosa l'ha colpita di più?
«La forte componente
identitaria. Un aspetto legato
alla tradizione di una città che
storicamente è sempre stata
molto composita. Ricordo,
per esempio, una signora dell'est Europa che era una grandissima fan di Vasco Rossi. A
casa sua intorno ai ricordi del
suo Paese di nascita c'era Vasco. Pur abitando in case molto piccole c'è grande cura degli spazi e volontà di personalizzarli».
Che rapporto hanno con
la storia dei luoghi che abitano?
«Ho trovato in tutti la felicità di aver avuto la possibilità
di abitare quegli spazi e di fare parte della città. C'è questa
voglia di partecipazione che si
vede banalmente nelle persone che parlano al parco. Lì si è
sviluppata una vita di quartiere molto speciale. Tutti sanno
tutto di tutto, le persone si sono integrate».
Per questo ha voluto fotografare anche il quartiere?
«Ma sì, ho fotografato per
esempio la vista dalla finestra
con quelle due enormi torri
per raccontare anche il contesto urbanistico. Ho fotografato i luoghi intorno che i residenti frequentano come il circolo Arci. Poi c'è la facciata di
via Gandusio».
Le foto dell'interno del palazzo sembrano prese dall'Unione Sovietica.
«E un luogo bizzarro, una
cittadella di cemento molto
alta che si configura in maniera molto dura. Ma la riqualificazione ha avuto un impatto
molto positivo. Questo è
l'aspetto più importante, l'abitare come sentirsi parte di
una comunità passa non solo
dai servizi o dalla scuola, ma
anche dalla possibilità di poter fruire della bellezza urbana. Che non vuole dire per
forza il palazzo in centro».