a tutta l'aria di una capsula del tempo La fabbrica
del passato. Autobiografie di
militanti comunisti (1945-
1956) di Mauro Boarelli
uscito nel 2007 e appena
ripubblicato da Quodlibet.
È un testo densissimo di
storia, riferimenti e note.
Raccoglie la ricerca accurata e ambiziosa, a ragione, all'interno di un archivio
immenso e inesplorato dí 1.200 racconti autobiografici di militanti comunisti, che, nel primo decennio del dopoguerra, il partito obbligava a narrare
pubblicamente o scrivere.
Una storia neanche troppo lontana nel tempo, ma
figlia di una cultura dimenticata e per lo più sparita
come quella del Pci, uno dei più grandi partiti di
massa europei, travolta insieme a tutta una cultura
politica e sociale, da una crisi di civiltà alimentata
da un feroce neoliberismo. Un mondo tramontato e
senza più memoria di cui Boarelli ha ritrovato ricche
testimonianze e per caso.
«Ero venuto a conoscenza - ci racconta dell'esistenza, a Bologna, di un fondo vastissimo di più dì
1.200 autobiografie scritte tra il 1945 e il 1956 e
56 LE FT 2 luglio 2021
conservato da quello che allora era il Pci. Nessuno lo
aveva mai visto né conosciuto perché non esisteva un
censimento e nemmeno un inventario. Iniziando a
leggerle, davanti a i miei occhi si è aperto un mondo
e una ricerca che non aveva precedenti. Parliamo di
un giacimento di scrittura popolare immenso a cui
possiamo avvicinarci da tanti punti di vista a patto
però di sapere poi intrecciarli tra loro, trovare legami
e non limitarsi a fare uno studio di carattere settoriale. Gli autori all'epoca avevano di media venti/
trent'anni, braccianti e operai il cui livello di scolarizzazione era molto basso e non avevano una grande
competenza di scrittura. Sicuramente l'autobiografia imposta dal Pci era per la grande maggioranza
di loro la prima esperienza di scrittura. Ho messo
in relazione questo materiale linguistico così ricco
con l'esperienza unica che questi militanti stavano
facendo nella scuola di partito del Pci e con il loro
retroterra culturale, che voleva dire misurarsi con la
cultura popolare e l'esperienza religiosa.
C'è la cultura orale e poi la scrittura. Qual è il
loro rapporto?
La cultura orale è quella contadina delle veglie e dei
racconti delle lunghe serate invernali. Questa tradizione ha un'influenza significativa sulla scrittura perché spesso è semplice trascrizione dell'oralità, appropriarsi di qualcosa di cui non si possiedono i mezzi e
le capacità. I militanti non scrivono in dialetto, ma
l'italiano utilizzato ha evidenti tracce di dialetto. Ne
risulta un originale mescolamento di stili e culture
che ritroviamo anche nelle letture nuove, inedite,
piú marcatamente politiche che loro mescolano a
quelle precedenti o ai racconti che avevano ascoltato magari da bambini dalle persone anziane del loro
paese. Una miscela di elementi in cui quello vecchio
non scompare ma si ricombina continuamente con
quello nuovo.
L'inizio di questa pratica coincide con il "partito
nuovo" formulato da Togliatti con la svolta di Salerno. Qual era lo scopo, la sua funzione?
La funzione principale delle autobiografie la definirei
una funzione di disciplinamento. Questo strumento
viene importato in Italia dall'Unione sovietica. E una
pratica che viene introdotta nell'epoca staliniana ma
si rintraccia in Lenin che a sua volta l'ha mutuata dal
rituale antico della confessione pubblica, tipica della
chiesa ortodossa. Stalin inaugura un meccanismo di
"bolscevizzazione" che viene esportato a livello internazionale in tutti i partiti comunisti, modellati
così sul principio del partito bolscevico sovietico. In
Italia, il rituale della confessione alla base della pratica delle autobiografie si intreccia con la tradizione
cattolica, soprattutto quella gesuitica in cui, però, la
confessione rimane privata e segreta.
Carlo Ginzburg nella prefazione ricorda che il
termine "militanti", ricorrente in molte lingue,
risale all'espressione ecclesia militans che ritroviamo nella bolla del 1540 di Paolo III con cui
viene approvata la Compagnia di Gesù...
Lo scopo principale infatti è quella di disciplinare
ideologicamente ogni militante. Il partito ha il controllo sulla vita dei militanti, passata, presente e si
voleva possibilmente anche futura. I militanti lo
sottolineano molte volte. E un'autorità pedagogica,
che educa, che offre una spiegazione e una possibile
soluzione alle difficoltà di comprensione o ai problemi anche pratici che i militanti incontrano nella
vita quotidiana. Offre soprattutto una prospettiva di
trasformazione sociale. L'azione di disciplinamento
non viene amministrato come in Urss attraverso il
terrore, la violenza fisica o le torture, né passa attraverso gli organismi disciplinari di partito. La scrittura è importante perché permette di interiorizzare
meccanismi e schemi ideologici che l'oralità non
consente. Ci sono delle ambivalenze. Se da un lato
c'è la funzione cruciale di disciplinamento, dall'altro
va rilevato il fatto che scrivere un'autobiografia per
il partito rappresentava per i militanti un riconoscimento, una attribuzione formidabile di soggettività,
di identità. E stato uno dei fattori decisivi della fortuna dell'autobiografia perché non era mai successo
che a queste persone, contadini e operai, poveri e semianalfabeti qualcuno avesse chiesto di raccontare la
propria storia! Inoltre, nonostante canoni obbligati
e coercitivi, molti riuscivano a creare spazi di libertà
inserendo nel racconto elementi che non rientravano negli schemi prescritti. È evidente nel linguaggio:
più formale, burocratico, legnoso quello che aderisce
chiaramente ad un modello; più personale e libero
quello che racconta della famiglia, della propria infanzia, dei propri amori.
Anche la religione ha una sua importanza. Tutti
si dichiarano atei ma la religione è presentissima.
Questo tema nelle autobiografie viene fuori in modo
evidente e Ernesto de Martino mi ha fornito la chiave interpretativa per scavare maggiormente in queste
contraddizioni che si possono forse appena cogliere
ad una lettura superficiale. De Martino accusava la
cultura comunista di avere cancellato l'importanza
dell'influenza religiosa sostituendola con un'altra
cultura ma senza capire che questa sostituzione era
all'epoca impossibile perché la cultura religiosa per i
ceti popolari era comunque una risorsa per non rischiare di perdere se stessi, e la militanza politica non
sostituiva questa prospettiva. Semmai dava ad essa
un'altra angolazione.
II libro è stato pubblicato una prima volta nel 2007.
Qual è la sua attualità? Lei cita Vittorio Foa che
spingeva a riflettere sul «silenzio dei comunisti».
La riflessione di Foa è molto aderente alle cose che
ho scritto, se pensiamo che il Pci è stato un grande
partito di massa, con un'intera tradizione politica,
ideologica e organizzativa di cui oggi non rimane
nulla. Solo un grande silenzio. Abbiamo pensato di
ripubblicare il libro in occasione del centenario della
nascita del Pci proprio per cercare di proporre una
chiave interpretativa diversa, una ricerca nuova che
non fosse memorialistica. Il centenario di Livorno
si è bruciato in pochissimi giorni e questo ha dimostrato come nel mainstream prevalga l'ansia dì
seppellire definitivamente un soggetto politico che
tra l'altro è già morto da trent'anni. Ma con esso è
stata impoverita, involgarita, cancellata l'intera memoria. Nessuno ne parla più, compresi coloro che
hanno vissuto in prima persona la militanza. Attraverso la pratica autobiografica, che doveva seguire
obbligatoriamente degli schemi imposti di ciò che si
può o non si può scrivere, si è costruito un modello
culturale di militanza che include l'autocensura ed
educare l'intero corpo politico all'autocensura comporta inevitabilmente che nel momento in cui quel
modello entra in crisi, non ci sono più le parole per
esprimere e parlare del proprio vissuto, non esiste
più la cultura critica necessaria per interpretarla