Pieno giorno, campo
medio. La luce è variabile: il cielo si sta rannuvolando e in fondo
alla strada le ombre
sono meno definite,
fra poco questa luce
verrà meno. Al centro
dell'immagine, di profilo, cammina una bambina in gonna rosa e calzettoni bianchi. Per strada, oltre a lei, solo un ciclista vaga in lontananza. Davanti alla
bambina fa angolo una chiesuola senza pretese, schiacciata a
una casa dalla verandina probabilmente abusiva. In basso si allunga l'ombra di un lampione,
ma ilpunctum sono le tre gigantesche ciminiere, a strisce orizzontali bianche e rosse, che scandiscono la fuga prospettica sullo
sfondo, come colonne che sorreggano il cielo incombente sulla scena. Il titolo, «Ostiglia, centrale elettrica»; la data, «1987».
È un esempio perfetto del paradosso di Ghirri: il quale ha distolto da sé ogni tentazione di
tecnicismo e ogni marchio di
«autorialità» individuale (quella
che definisce «fotografia creativa» ossia, traduco, d'avanguardia) ma che oggi, con ogni probabilità, è il fotografo più riconoscibile in assoluto. Gli sottopone questo paradosso Arturo Carlo Quintavalle nel '91 (l'anno prima dell'improvvisa scomparsa
del fotografo, non ancora cinquantenne), nell'ultima conversazione che mette capo a Niente di antico sotto il sole. Scritti e
interviste (introduzione di Francesco Zanot, Quodlibet, pp. 354,
€ 22,00), libro che colma un'annosa lacuna: la prima edizione,
qui rivista e integrata, risale al
'97 ed era da tempo introvabile.
Un occhio «tecnico» mostrerebbe che la foto è incorniciata
al suo interno da un sistema di
ascisse e ordinate (al ritmo verticale delle ciminiere risponde
l'ombra del lampione; in orizzontale un cavo collega i due lati
della strada e un'altra ombra lineare interseca la camminata
della bambina): quelle che nelle
Lezioni di fotografia, pubblicate
postume nel 2010, Ghirri chiama «quinte» o «inquadrature naturali». Certo quella del teatro è
suggestione importante, come
la percezione della «leggibilità
del mondo» (per dirla con Hans
Blumenberg), di un suo «ordine» tanto misterioso quanto evidente. A tutti gli effetti, insomma, quella di Ghirri è una sensibilità metafisica. (Mistero e malinconia di una centrale elettrica, non
si può non ribattezzare la foto
di Ostiglia.)
Un altro paradosso è questo
libro. Il suo autore non era certo
un «intellettuale»: le sue letture
sono tanto voraci quanto disordinate, le sue citazioni ripetitive e spesso di seconda mano, i
suoi scritti superano di rado le
due o tre pagine. Ma proprio
questi testi mostrano come al
suo sguardo corrispondesse un
pensiero. Lo dice lui stesso, vezzoso, citando Giordano Bruno:
«pensare è speculare per immagini». Una frase alla quale resterà sempre fedele, anche quando abiurerà l'impianto concettuale dei primi lavori e passerà
«dalla fotografia di ricerca alla ricerca della fotografia» (un po' alla maniera del proverbiale Picasso che non cercava, ma trovava).
Su queste pagine un giovane
Marco Belpoliti lo intervista nel
1984, e gli chiede se la foto celebre dei due turisti di schiena che
si dirigono verso le montagne
imponenti all'orizzonte (è l'immagine che tre anni dopo il complice di sempre, Gianni Celati,
metterà in copertina al suo libro
più «filosofico», Quattro novelle
sulle apparenze) non sia «una foto
ricordo di una foto ricordo»,
cioè «una fotografia intellettuale». La stessa foto parrà a Quintavalle un trompe l'ceil, coi «villeggianti davanti a un cartellone».
Ma Ghirri all'uno risponde che
quella è «una immagine vera
scattata all'Alpe di Siusi» (anche
se sul palinsesto d'una precedente foto «concettuale» «davanti a
una cascata in un cartellone pubblicitario»), e all'altro che quello
del «fotografo intellettuale» è
un «malinteso», perché le sue sono «fotografie naturali» (formula ossimorica quanto quella del
Teatro Naturale di Oklahoma di
Kafka; un suo libro Celati lo intitolerà Cinema naturale). Lo stesso
anno però, a un altro interlocutore sin troppo disposto alla
semplificazione, dice severo
che «la fotografia è conoscenza e
affetto; ma nel senso di una categoria della scienza».
Non vuole essere «uno specialista», Ghirri. Aspira a un linguaggio che sia tanto semplice
quanto accurato, come quello
delle canzoni di Bob Dylan o dei
dipinti di Bruegel (forse i due artisti che ammira di più), immaginiche siano «abitabili» (così parafrasa, orecchiando Heidegger,
la Chambre claire di Barthes), perfettamente quotidiane e insieme cariche di «mistero». Divide
in due versanti il suo percorso la
scoperta, attorno al '75, di Walker Evans: il linguaggio straight
dei «classici» americani interviene a correggere l'agudeza degli
esordi (e lo divide dai coetanei
d'oltreoceano, come William
Eggleston, che ammira ma non
ama per la «precisione» iperbolica che trova «funebre»). Ma il fatto è che non la esautora mai del
tutto. Questa formazione di
compromesso salva Ghirri dalla
tentazione «identitaria» e dal
«colore locale» che di recente
Stefano Chiodi ha sintetizzato
con la formula di Genius Loci: formula che Ghirri (mutuandola
proprio da Norberg-Schulz, come mostra un passo delle Lezioni) rigetta nel più denso dei suoi
scritti, quello dell'87 che s'intitola Il punto di scomparsa. E la fotografia del bizzarro e del «romanzo fiabesco» (cita Diane Arbus) a
essere per lui sovraccarica di
identità: laddove la sua ricerca è
improntata, all'estremo opposto, a una minuziosa spersonalizzazione. Quando riassume la
tradizione iconografica italiana
liquida sprezzante ogni «strapaese» (difendendo da quest'accusa Un paese di Strand e Zavattini). Anche la negazione del «momento decisivo» di Cartier-Bresson mira a emendare ogni aneddotismo in favore di uno «stare
al mondo» (i suoi pittori, oltre a
Bruegel, sono Hopper e Van Gogh) che non è il suo ma, idealmente, quello di tutti (le sue topiche figure di spalle sono, propriamente, everymen).
Al di là delle apparenze casual, cioè della loro matrice per
lo più occasionale, come le sue
foto le pagine di Ghirri sono
portatrici del suo pensiero.
Non importa se gli echi evidenti di Benjamin (la «distruzione
dell'esperienza»), Lévi-Strauss
(la «fine dei viaggi», guardando
le immagini della Terra dalla
Luna, come nello Sguardo dal di
fuori di Alberto Boatto) o soprattutto Heidegger (l'«immagine
del mondo») derivino da letture dirette: la densità di pensiero, proprio perché mai ostentata, fa di ogni episodio una piccola - e spesso non così piccola
- illuminazione.
Anzi è sintomatico che il suo
pensiero più poetico derivi da
una citazione malintesa, quella
di una frase di Cézanne: «tutto
sta scomparendo, bisogna far
presto se si vuole vedere ancora
qualcosa». In realtà nelle sue lettere il pittore spesso lamenta
l'impermanenza della luce, che
non gli permette di lavorare en
plein air con continuità: invece
Ghirri, che la prende da un film
di Wenders, intende la «scomparsa delle cose» in senso gnoseologico, per non dire ontologico. Poco tempo dopo infatti, intervistato sempre su queste pagine da Severino Cesari all'uscita
di Verso la foce (testo nato proprio
dalla collaborazione con Ghirri,
ai tempi di Viaggio in Italia), Celati gli fa eco parlando del «lutto
per ciò che svanisce». Tre anni
dopo, svanito era Ghirri stesso.
Nell'ultima delle poche foto
che li ritraggano insieme (Ghirri, che detestava farne, assai di
rado è presente nei ritratti dei
suoi colleghi) si tengono a braccetto: Gianni è «in maschera», incantato e in tralice. Invece Ghirri guarda dritto nell'obbiettivo:
lo sguardo al solito è un po' appannato, ma il sorriso è franco.
Si capisce che si sta divertendo.
E un po', a chi lo guarda oggi, fa
stringere il cuore.