Recensioni / La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi

Se la filosofia sia geograficamente connotata è un problema annoso che inevitabilmente si intreccia con complesse questioni storiografiche. Collocare il pensiero nello spazio significa conferirgli una dimensione temporale. Tutta la faccenda non è affatto pacifica, perché a essere messa in discussione potrebbe essere la pretesa oggettività e universalità del pensiero, poiché da questo punto di vista non vi sarebbe il Pensiero, bensì solo dei pensatori situati in un luogo e in un’epoca specifici. Quanti salti mortali si siano poi fatti per salvare capra e cavoli (ossia la storicità della persona in carne e ossa da un parte, e dall’altra l’assolutezza della filosofia) è davvero oggetto della storia della filosofia da manuale, inteso nel duplice senso per cui è come la si dovrebbe fare e che di fatto coincide con la manualistica didattica.

Corrado Claverini affronta di petto il nodo problematico già visibile in filigrana nel titolo del suo libro: La tradizione filosofica italiana. In particolar modo, nel primo capitolo che tratta delle “questioni preliminari” e poi nella conclusione vengono discusse le questioni fondamentali, ossia il rapporto tra filosofia e storia, il pericolo del nazionalismo e il rapporto tra stato, nazione e territorio.

Il titolo del libro, appunto, ci dice già molto: la tradizione è tale in quanto si richiama a una storia comune (o che tende ad accomunarsi, almeno nel richiamo a un passato condiviso), mentre esplicitare che si tratta di una filosofia italiana la colloca spazialmente, forse ancora prima che culturalmente, in un territorio.

Uno dei pregi indiscutibili di Claverini è quello di voler sgombrare il campo sin da subito dagli equivoci del nazionalismo, e non è davvero poco in quest’epoca di rigurgiti neofascisti.

I quattro paradigmi interpretativi indagati, a cui fa riferimento il sottotitolo, utili a tracciare una storiografia della tradizione filosofica italiana, sono nell’ordine quelli di Bertrando Spaventa (il primo a parlare di una vera e propria filosofia italiana e di “circolazione europea del pensiero italiano”, per cui anzi i pensatori italiani anticipano i maggiori pensatori europei), di Giovanni Gentile (per il quale, com’è noto, vi è un progressivo inveramento del pensiero, che attraverso Hegel culmina nell’attualismo pomposo e retorico dalla prosa gentiliana; ma del resto dall’insopportabile retorica fascista, una volta che vi si rimane invischiati, è quasi impossibile tirarsene fuori), di Eugenio Garin (che critica la visione più teoretica che storiografica di Spaventa e Gentile e nel quale troviamo «un’attenzione particolare per i “piccoli problemi” – filosofici, morali, politici, civili – che sorgono dalla concreta situazione storica in cui i pensatori di volta in volta sono immersi», pag. 98) e infine Roberto Esposito, fautore di un nuovo paradigma interpretativo, nel quale si muove gran parte del movimento filosofico italiano contemporaneo, ossia l’Italian Thought che si richiama al successo internazionale di alcuni pensatori, quali Agamben o Negri, e alla loro ricezione negli Stati Uniti.

Il quadro generale che ne viene fuori è variegato e tutt’altro che definito. In particolar modo, Claverini è molto puntuale e aggiornato sugli ultimi sviluppi storiografici e sul dibattito circa il cosiddetto Italian Thought. Tale espressione è stata spesso oggetto di contestazioni, dovute in gran parte all’assunzione di un’espressione inglese (nei fatti statunitense) per designare una tradizione italiana. Immaginatevi se negli Stati Uniti si possa mai fare ricorso a un’espressione in italiano per indicare una loro corrente di pensiero. Ma del resto, a volere essere cinici, è così che funziona la dominazione culturale: pure nella presunta specificità di una corrente di pensiero, invero accomunata solo dal fatto che si usa la lingua italiana per esprimersi, si fa ricorso a una definizione presa a prestito da un’altra lingua e per imitazione della German Philosophy e della French Theory.

Claverini molto probabilmente non sarà d’accordo col mio giudizio, ma questo mi sembra provincialismo, tipico di chi si sente alla periferia dell’impero.

Forse alla fine dei conti, aveva ragione Benedetto Croce, citato da Claverini stesso, che in funzione anti gentiliana con un notevole motto di spirito aveva sentenziato: «Io non provo nessun entusiasmo per la “filosofia nazionale”, e pei raccomandati “ricollegamenti” allo Spaventa e, magari, al Gioberti e al Rosmini. Anche di questi scrittori, com’è naturale, fo molta stima; ma il tempio filosofico è immensamente più largo di quello dedicato a questi santi: è il Pantheon, e non una chiesa di Sant’Ambrogio o di San Gennaro» (citato a pag. 58).

Resta che questo libro è un ottimo strumento (accademico, certo, ma non vedo dove altro possa trovare ricetto la storia della storiografia) per avere il polso degli ultimi cento anni e passa di riflessione non soltanto sull’esistenza di una specifica filosofia italiana, ma anche sulla sua eventuale funzione in un’ottica europea (Claverini giustamente parla nelle ultime pagine di montante euroscetticismo) e ancor più in una visione cosmopolita, per cui, chiude l’autore, «si tratta di salvaguardare le identità e le culture nazionali non a scapito del cosmopolitismo, ma in nome della sua vera natura, a distanza di sicurezza da ogni forma di identitarismo e di nazionalismo» (pag. 133). Tanto più, in questa situazione, aggiungerei che non sentivamo assolutamente il bisogno delle uscite cialtronesche dei vari Agamben e Cacciari. Con buona pace dell’Italian Thought.

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