Edito da Quodlibet e inserito all’interno della collana
MaterialiIT, il libro di Corrado Claverini, La tradizione
filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi
(Macerata 2021, pp. 215), si colloca nel solco del
ripensamento e della problematizzazione della filosofia
italiana. La questione centrale del libro, che nasce dal
crescente successo che il pensiero italiano sta riscuotendo
all’estero negli ultimi anni, ruota attorno alla legittimità o
meno di una filosofia italiana e a quali siano i suoi ipotetici
caratteri distintivi. Una questione a cui l’autore cerca di rispondere ripercorrendo
quattro paradigmi che, nel corso del tempo, hanno tentato di individuare una o più
specificità del pensiero italiano, di delinearne l’essenza o di profilarne i confini. Nello
specifico, i paradigmi presi in considerazione sono quelli riconducibili rispettivamente
a Bertrando Spaventa, Giovanni Gentile, Eugenio Garin e Roberto Esposito.
Il primo paradigma è rappresentato dalla teoria della circolazione europea del
pensiero italiano di Bertrando Spaventa che individua nell’“ingegno precursore” il
tratto distintivo del pensiero italiano. In linea con Spaventa si colloca il secondo
paradigma rappresentato da Giovanni Gentile che, con la sua (incompleta) Storia della
filosofia, prolunga il paradigma spaventiano e individua nella tradizione italiana un
progresso teleologico di progressiva immanentizzazione.
A questo primo blocco di autori si aggiungono gli altri due paradigmi. Si tratta del
paradigma rappresentato da Eugenio Garin che, pur continuando l’opera gentiliana di
una storia della filosofia italiana, abbandona le categorie storiografiche precedenti –
“precorrimento”, “superamento”, “progresso” ecc. – e i quadri unitari logicamente
necessitati, restituendo “alla storia la sua storicità” (p. 13) ed eterogeneità e
liberandola dall’orientamento teleologico. In quest’ottica, lungi dal rintracciare un
tratto distintivo specifico della filosofia italiana, egli ne sottolinea la complessità
irriducibile e non sistematica, nonché il suo timbro tragico. Piuttosto, a caratterizzare
la filosofia italiana sarebbe la sua vocazione civile, la sua mondanità ed estroflessione
costante verso la politica, la morale, la religione. Proprio l’eterogeneità e la capacità
di estroflessione, proprie della filosofia italiana, vengono sottolineate anche
dall’ultimo paradigma rappresentato da Roberto Esposito che ha avuto il merito di
dare risonanza al pensiero italiano delineandolo come “pensiero vivente”, capace di
“deterritorializzarsi” per il carattere “non nazionale” che lo ha contraddistinto “sin
dalla Scolastica e dal Rinascimento” (p. 107).
Stando ai quattro paradigmi ripercorsi dal libro – nei loro punti di forza ma senza
sottacere i loro limiti –, è non solo legittimo parlare di una filosofia italiana ma è anche
necessario rivolgersi alla tradizione italiana, non per riprodurla “musealmente” ma
per renderla operativa nell’attualità. Non si tratta, dunque, di ricostruire tale
tradizione in chiave storica, ma di ripensarla “in una chiave squisitamente
speculativa” (p. 115). Intento del libro di Claverini, in questo senso, è tentare di
allargare quegli stessi paradigmi per individuare i caratteri che dovrebbe avere una
storia della filosofia italiana pensata all’altezza di un presente globalizzato o, come
scrive l’autore, i tratti di “una terza via alternativa tanto al nazionalismo quanto al
globalismo” (p. 15).
In particolare, invitando a sfruttare l’eterogeneità della filosofia italiana e la sua
capacità di ibridarsi con altre discipline, l’autore invita a dare ulteriore risalto
all’interdisciplinarità poiché una prospettiva interdisciplinare consentirebbe di non
ridurre la “differenza italiana” ad una sola caratteristica (p. 132). All’interdisciplinarità
della filosofia italiana deve, però, accompagnarsi un approccio comparatistico che
tenga conto delle altre tradizioni europee e non europee e che sia capace di
salvaguardare le differenze culturali, pur in un contesto globale, tenendosi a debita
distanza dallo storicismo e dallo sciovinismo. Uno dei rischi, infatti, che occorre
evitare nel parlare di filosofia italiana è quello di cadere in discorsi di carattere
nazionalistico, tanto più in un momento storico in cui, come ricorda l’autore,
“l’euroscetticismo è sempre più diffuso” (p. 133). Un rischio che Claverini affronta
lungo tutto il libro, in cui cerca piuttosto di restituire la feconda relazione tra elemento
storico ed elemento veritativo, nazionale e internazionale, territoriale e globale.
Qualche questione rimane, però, ancora aperta. È vero, infatti, che “è innegabile
che oggi vi sia un particolare interesse verso il pensiero italiano” (p. 124). Tuttavia, nel
proliferare recente di pubblicazioni e convegni sul pensiero italiano non si rischia,
forse, di far perdere, tentando di estenderlo diacronicamente e sincronicamente ad
ambiti diversi, proprio quella vocazione civile e quella capacità di incidere con confini
netti sulla realtà, di cui pure si rivendica la specificità tutta italiana? E non si rischia,
inoltre, una cristallizzazione accademica di ciò che all’estero definiscono Italian
Thought, venendo meno a quella concretezza che lo caratterizzerebbe e lo
distinguerebbe tanto da una French Theory quanto da una German Philosophy?
Queste, mi pare, rimangono ancora delle questioni aperte.